TRAMA
Tim, figlio unico sommerso di attenzioni da genitori affettuosi e sempre presenti, si ritrova la vita capovolta dall’inaspettato arrivo di un fratellino, bebè solo nell’aspetto.
RECENSIONI
A Cartoonia, si sa, sono le cicogne a portare i bebè. Dopo Water Babies, silly symphony disneyana del 1935 dove i bimbi nascono da ninfee, Disney stesso con Dumbo (1941) se ne convince, mentre un corto Paramount, The Stork Market (1949), immagina una fabbrica di bebè in cielo con cicogne operaie. Recentemente la Pixar ha un lampo di genio e nel dolcissimo corto Partly Cloudy (2009) affida alle nuvole il compito di creare bimbi e cuccioli, pur confermando le cicogne nel loro lavoro di fattorini.
Con Cicogne in Missione (Storks, 2016) anche la Warner Animation scende in campo, ma partorisce sostanzialmente un remake del corto del '49, raccontando, con la schizofrenia esilarante e frenetica propria del suo stile, una action comedy con tanto di morale, come piace a Hollywood.
E' questa la strada battuta anche dalla Dreamworks Animation, che con Boss Baby - vagamente ispirato al libricino omonimo di Marla Frazee - ci racconta come, secondo lei, nascono i bambini.
Torna l'idea della fabbrica a catena di montaggio tra le nuvole, la BabyCorp, ma stavolta spariscono le cicogne. Sono altri bebè, quelli più tristi e seri, che diventano adulti manager workaholic senza invecchiare grazie a un latte speciale, a gestire l'intera azienda. Il baby boss del titolo è uno di essi e, in completo nero e ventiquattrore, irrompe nella vita di Tim per portare a termine una missione speciale, il cui esito positivo gli regalerebbe una sostanziale promozione: impedire il lancio sul mercato del forever puppy, il cagnolino definitivo, per sempre cucciolo e coccoloso, che comporterebbe un crollo della domanda dei bebè e il conseguente fallimento della BabyCorp.
Insomma, premessa strampalata, perfetta da tradurre in animazione, a sviluppare la quale è stato chiamato il regista Tom McGrath (i vari Madagascar e Megamind) che però non riesce a dare concretezza e credibilità all'impianto narrativo. Sarà che ormai la Pixar ha fatto scuola e ha viziato il mondo intero con i suoi sotto-mondi così perfetti, in cui ogni tassello è al posto giusto e dove, volgarmente dicendo, “tutto torna”, ma qui si ha la sensazione che il film cerchi di distrarre lo spettatore con gag slapstick (riuscitissime il più delle volte) per far sì che non si ponga troppe domande, nonostante gli scricchiolanti e poco convin(cen)ti chiarimenti, ammazzando qualsiasi sospensione dell'incredulità attraverso un comodo escamotage: la storia è narrata in voice-over da un Tim adulto che racconta del primo incontro col suo fratellino alla sua primogenita che, a sua volta, sta per incontrare la nuova sorellina. Ma non finisce qui, perché i livelli narrativi sono addirittura tre in quanto Tim, da bimbo fantasioso e creativo quale era, amava alterare la realtà per farsi protagonista di avventure nello spazio, in fondo al mare, nella giungla etc. e questa alternanza di piani narrativi crea un guazzabuglio di storytelling in cui alla fine qualsiasi nonsense sembra giustificato (perfino un ciuccetto che, come la pillola rossa di Matrix, permette di accedere alla Verità).
E' un peccato perché Tom McGrath aveva dimostrato di saper ben gestire in Madagascar 3 il nonsense più puro e divertente, quasi fine a sé stesso, complice anche una struttura narrativa più semplice e lineare, sovraccaricando il tutto (come se non bastasse) di omaggi e citazioni ormai immancabili nei film animati (il già citato Matrix, Mary Poppins, Indiana Jones, Gli Incredibili tra i tanti).
Nonostante tutto il film svolge bene il suo compitino grazie soprattutto a due fattori: l'aver mantenuto l'idea di base del libro, ovvero il raccontare l'avvento del nuovo venuto in famiglia attraverso gli occhi del primogenito, per quale il fratellino è un vero boss intransigente, capace di catalizzare su di sé tutta l'attenzione dei genitori, trasformandoli in impiegati comandati a bacchetta.
L'altro elemento è il ricorso a un timing e un acting eccellente, controscene irresistibili, un design appealing che punta sulle morbide rotondità del baby boss contrapponendole al suo fare autoritario, da broker in carriera. Ma l'anima del film è data dalla verve sprezzante di Alec Baldwin che doppia in originale il personaggio, rendendolo un discendente del Baby Herman di Chi ha incastrato Roger Rabbit? infondendogli un po' del Jack Donaghy della serie tv 30 Rock, sempre da lui interpretato.
Insomma tra facili risoluzioni, twist inaspettati ma mai sorprendenti e spassose gag, il film scorre innocente come il sorriso di un lattante, intrattenendo a dovere senza mai stupire, complice anche il fattore cuteness nel design e nelle animazioni dei bebè che rubano letteralmente la scena strappando più di una risata o un convinto ohhh (effetto occhioni da gatto con gli stivali per intenderci), ponendosi in linea col gradevole Trolls, film immediatamente precedente, sempre di una Dreamworks ormai timida, che lancia un cenno alla Pixar nascondendo la mano, in piena crisi creativa ma avida di ritrovare una nuova formula del successo.