Commedia, Recensione

BAARÌA

TRAMA

Una famiglia siciliana raccontata attraverso tre generazioni.

RECENSIONI

Da sempre tentato dal kolossal, Tornatore, dopo il più contenuto (ma solo in termini di budget, ché il nostro per altri versi mai si contiene) La sconosciuta, torna sul luogo del delitto a giganteggiare; Baarìa è dichiaratamente il suo amarcord: c'è moltissimo Fellini in queste due ore e mezza di cinema affettatissimo, in questo affresco slabbrato e prolisso, kermesse sovrabbondante dove sfilano comparsate (l'elenco è lungo) che si cristallizzano in un carattere riconoscibile, seconda la logica del riminese (Lina Sastri come Pupella Maggio, mi viene da dire) e che si rivela summa suprema del suo essere cineasta, pregi e difetti. Non c'è dubbio che Tornatore sia tra i nostri uomini di cinema più abili e competenti, non solo profondo conoscitore del mezzo, ma carattere curioso nei confronti delle sue evoluzioni e sempre pronto ad accoglierle (il digitale, molto ben padroneggiato in questo film in cui se ne fa ampio ricorso; il Motion Control ne La leggenda del pianista sull'Oceano, tanto per fare due esempi). Non ci sono ombre neanche sulla sua conoscenza della Settima Arte e dei numi tutelari che ha eletto e che ama evocare con giusta sfrontatezza ad ogni pié sospinto (Fellini, a palla, lo si è detto, ma Leone non di meno fa capolino in ogni dove) celebrando, anche in modo palesemente autoreferenziale, il potere ammaliante del cinema (Uno sguardo dal ponte, il doppiaggio del film con Fred Astaire) e sulla padronanza della macchina da presa che è sua croce e sua delizia; la tanto celebrata tecnica tornatoriana ancora una volta si risolve in esercizio puro, certo, ma zoppicante, un'opera che, evitando (gliene diamo atto) i cascami intellettual-politico-sociali di tanto cinema italiano si converte all'istante a una similiare deriva accademica, che netta evidenzia la discrasia tra sostanza e forma, uno iato che fa precipitare la calligrafia del regista nel baratro di uno stile molto ricercato, ma rinvenuto debolissimo: la forma lustrata non può essere chiamata a soccorrere la sostanza (vecchia storia, quando si ha a che fare coi film del siciliano), ma deve trovare con essa quel difficile equilibrio nel quale risiede la beltà di uno stile.

Lo sfoggio continuo di questa magistralità gridata, questa tendenza a fare di ogni immagine un'icona, questo calare violentemente lo spettatore in un'epopea senza climax, tenuta costantemente su toni altissimi, con un dramma che stenta ad emergere in tanto clamore, sottolineata da un soundtrack di invadenza leggendaria (ventisette brani originali: troppi, persino se firmati da Morricone, persino se concepiti per un film così lungo) finisce invece per mettere a nudo in modo palese quanto poco ci sia dietro un tale smaniare, quanto la cattedrale sia pura scenografia monodimensionale, cui difetta il ritmo (altra bestia nera di Peppuccio) e che rimane una costellazione interessante di facce (cfr. L'uomo delle stelle), enfatico rincorrersi di personaggi idealizzati (cfr. Malena), paesaggio mentale, vagamente onirico (C'era una volta in America c'entra assai) che si risolve in una sequela di finali (altra cifra immancabile) che chiudono tutte le parentesi aperte per far quadrare trionfalmente il cerchio narrativo che si snoda in questa Sicilia palesemente finta (ricostruita in Tunisia) che ha la lucidità di uno spot e una povertà lussuosa e patinata da realismo magico, in cui il pane, la fame, la mafia sono elementi che vanno a costruire, accanto al sangue, i soldi, la passione, il sudore, una realtà parallela e del tutto virtuale, fiabesca e straordinaria, romantica e improbabile, quella di un romanzone popolare cui non difettano le idee e in cui, se accettabile è il simbolismo spicciolo (le uova rotte; le mani sulla città - bella intuizione, un'immagine semplice, ma di innegabile forza sintetica -), il cambio di stagione sottolineato, il feuilleton spudorato, la comicità studiatamente ingenua, la figura monstre, molto meno esaltante è il quadro d'insieme che viene da tutti questi elementi incorniciato. Non vedrei peraltro come un difetto lo sfuggire dell'autore alla narrazione fluente, preferendo il fraseggio sincopato del frammento (è proprio quando il suo cinema si vuole far racconto ad ogni costo che cominciano i guai), ma in esso, non riesce mai a garantire l'innesto di una visione interessata alla sostanza di ciò che viene messo in scena, quanto al pallido effetto coreografico che ne deriva: è un girare (a) vuoto che non sostanzia nulla, se non una sequela di spunti folcloristici che non si connettono un sistema funzionale, ma rimangono statici e fini a se stessi, quasi che l'impalcatura (che pure c'è, la intuiamo) fosse lì solo per incasellarli e non per acquistare vita attraverso essi. Baaria allora si propone come la celebrazione del grande gesto registico in cui la Sicilia amarcordizzata da Tornatore da testo diventa pretesto, espediente involontario che resta, per puro accidente, sbigottito, in primo piano, mentre tutto il resto si dirige altrove.

Tornatore e il cinema memoriale alla Nuovo Cinema Paradiso: sulla carta una garanzia. Grande delusione, non del tutto inattesa: il director’s cut del film citato denunciava già la propensione dell’autore a “perdersi” in una drammaturgia disomogenea. Qui ha tutta la libertà dei suoi 150’ e, nella parte iniziale, si è frastornati dall’affastellarsi di piccoli episodi, puri sketch (originali e gustosi, però) di ricordi personali senza filo conduttore, finanche una semplice cornice che li contenga. L’impianto è, oltretutto, corale e ogni personaggio è incastonato in una gag, una barzelletta, un episodio colorito, uno spot. Si è anche sconcertati dall’uso gratuito di tanti volti noti del cinema nostrano, inseriti a forza in ogni dove, donando ad alcuni caratteri imbarazzanti, assurdi (vedi i “matti” di Fiorello e Lo Cascio). In seguito l’opera si dedica con più continuità ad un unico personaggio, questo Peppino (ispirato alla figura paterna del regista) fervente militante comunista in anni in cui la mafia ci metteva poco ad ammazzare. E diventa un film già visto (fra gli ultimi esempi: Placido Rizzotto), non tanto per temi e contesti già affrontati da altri, quanto perché l’opera non è in grado di aggiungere nulla e quel poco che dice è pericolosamente epidermico. In ogni dove, poi, sono sbagliati i toni: da un lato c’è il commento sonoro enfatico di Morricone, dall’altro personaggi-figurine che ricordano certe nostrane commedie pecorecce; da un lato Tornatore ricerca l’epica e la commozione, dall’altro edulcora tutto affidandolo a macchiette stupide, non a personaggi pittoreschi amati (come faceva Fellini in Amarcord). Peccato, perché è palpabile il grande atto d’amore nei confronti della sua Bagheria, ricostruita con sapienza (scenografica, d’umori odori usi e costumi) in Tunisia.