Drammatico

AUGURE

Titolo OriginaleAugure
NazioneBelgio, Francia, Repubblica Democratica del Congo
Anno Produzione2023
Durata90'
Sceneggiatura
Costumi
Musiche

TRAMA

Koffi e Alice sono una felice coppia multietnica che vive da anni in Belgio. Quando i due decidono di sposarsi, il futuro consorte è intenzionato a tornare nella sua terra natia. La famiglia, tuttavia, lo accoglie con freddezza e distacco. Koffi è infatti considerato uno zabolo, un uomo cioè posseduto da un’entità maligna.

RECENSIONI

Nomen, Omen: «In swahili, il nome Baloji significa "stregone", o anche "stregone che può prendere tutti i poteri degli altri stregoni". È un nome orribile. A causa del mio nome, e perché le persone erano solite etichettarmi come uno stregone, sono sempre stato affascinato dalla stregoneria e dalle persone che sono viste come diverse

L'arrivo di Koffi dal Belgio verso quel Congo che aveva lasciato anni prima coincide con la Domenica delle Palme: un viaggio intrapreso per pagare la dote matrimoniale portando con sé la bianchissima Alice, incinta di due gemelli, in un percorso di (im)possibile riunificazione con la sua famiglia.
Intrecciandosi con altri personaggi, come lui segnati dal marchio della stregoneria, la storia di Koffi e di chi condivide il suo destino si snocciola lungo il corso di quattro capitoli, ognuno accompagnato dal proprio stigma, un doloroso rosario da sgranare lungo i giorni della settimana santa.
Ma la banale epistassi da cui è affetto scatenerà un istinto primitivo che renderà evidente una frattura culturale ormai insanabile, aprendo un varco su qualcosa di sinistro, arcano e arcaico («Vogliono solo spaventarmi, stanno cercando una spiegazione religiosa»).

Ici le désir du pauvre est toujours coupable / On lui fait croire qu'il merite ce que lui arrive / Les gens viennent, il viennent avouer leurs fautes, se désigner responsabiles / Il sont dans la haine de soi, la foi punitive / Épiphénomène, épiphanie / Pourquoi on se prosterne / Ode à la douleur fantôme / Peine insondable
Holy Ghost (Jeudi Saint) - Baloji

Lo stesso stigma diaboli segna l'esistenza di Paco, giovane leader della gang dei Goonz, di rosa vestito e con una tiara sulla testa, che vive in uno scuola bus dismesso con la sua cricca gridando vendetta per la morte della sorella, in una lotta costante i coetanei rivali.
Quattro personaggi in cerca di redenzione dal proprio autore, di liberazione da chi li ha marchiati con una lettera scarlatta tanto metaforica quanto dannatamente concreta.
La sorella Thsala, presto in fuga verso il Sudafrica, rea di una relazione poliamorosa, finisce per ritrovarsi vittima di un rito di purificazione atto a restaurarne la moralità: lei e il compagno cercano conforto sdraiati a terra, i corpi nudi e intrecciati, interamente dipinti da disegni ancestrali, consci del fatto che un simil esorcismo con olio di palma non servirà mai a guarirli dalle malattie veneree, da quell'unica sventura che volevano estirpare.
E nel capitolo finale, dedicato alla madre di Koffi, il passato è finalmente pronto e maturo per dischiudersi, facendo riemergere segreti altrimenti inconfessabili. Un'ex moglie più amata di lei, un figlio mai realmente voluto: il marchio dell'infamia - tragedia collettiva, maledizione atavica - scorre forse ancora più forte su di lei costretta adesso nel momento del lutto, da una famiglia che la ripudia, a invidiare il destino dei figli in fuga.

Quand la mort pose ses valises, tous les secrets sont eventés
Le bruit blanc - Baloji

Con la morte del marito, Mujila e i figli lottano per mettere la parola fine a una vita terrena, per offrire sepoltura a un corpo disperso nei meandri della miniera in cui lavorava, forse per l'eternità.
Senza negare la spesso sordida solidità di un quotidiano fatto di barriere burocratiche, cordogli oltraggiati, tradizioni disumanizzanti, fratture razziali e sociali e ombre patriarcali (Augure fa i conti con il presente del Congo, con i burocrati che si prendono gioco di chi richiede certificati di morte per poter offrire un lembo di terra a chi non c'è più, perché «Nessuno viene mai qui a chiedere un certificato di morte. I morti gli servono solo per votare per il Presidente, per ottenere i loro risultati sovietici»), non manca al tempo stesso di attraversare continuamente il confine tra ciò che è tangibile e ciò che è fantasmatico, aprendo squarci su dimensioni liminali.
Una tendenza, quella di osservare un presente spesso socio-politicamente contorto attraverso una lente altrettando distorta, che accomuna del resto tante opere prodotte o co-prodotte negli ultimi anni nel continente africano: dal realismo magico di Air Conditioner (Fradique, Angola) all'afrofuturismo di Neptune Frost (Saul Williams e Anisia Uzeyman, Ruanda), dalle atmosfere surreali di I Am Not a Witch (Rungano Nyoni, Zambia) a quelle più ipnotiche di Faya Dayi (Jessica Beshir, Etiopia).

«Il senso dell’eerie è di rado ancorato a spazi domestici circoscritti e abitati: lo incontriamo più di frequente in paesaggi parzialmente svuotati della presenza umana. Che cos’è avvenuto per originare quelle rovine, quell’assenza?»
The Weird and the Eerie - Mark Fisher

È solo grazie alla perdita che Mama Mujila potrà finalmente colmare quel vuoto che l'ha segnata in vita e riunire quel talamo nuziale separato per anni, in un abbraccio impossibile con l'uomo che l'ha sempre respinta («Torniamo indietro da tutto, tranne che dall'assenza. Torniamo indietro da tutto, tranne che dal vuoto lasciato da chi è assente. L'assenza occupa l'intero spazio»), per poi ritrovarsi - sognante? Dormiente? Connessa ad un luogo e un tempo che travalicano il reale? - in un deserto immaginifico, in un lento cammino verso quel funerale tanto agognato.
L'universo funesto - di indubbia potenza visiva - creato da Baloji, artista multidisciplinare qui al suo esordio nel lungometraggio, è ricco di molteplici suggestioni da ricercarsi nella tradizione come nel contemporaneo: al dramma si alternano tableau vivant che evocano fotografia e arte installativa, la guerra quotidiana delle gang e i loro scontri sul ring riecheggiano un balletto - in cui non mancano elementi queer -, il lutto è accompagnato dal suono delle fanfare di New Orleans, i cupi canti delle prefiche si alternano alle atmosfere gioiose di un Día de los muertos di ispirazione messicana, le maschere (mortuarie, rituali) richiamano tanto il passato ancestrale dei culti congolesi quanto la spiritualità meticcia - ancora una volta - della capitale della Louisiana.
Tanto era già in nuce in Peau de Chagrin / Bleu de Nuit, ibrido tra cortometraggio e videoclip - ad accompagnare due suoi differenti brani, che danno il titolo all'opera - prodotto anche grazie a Renzo Martens e al NTGent sotto la direzione artistica di Milo Rau: i corpi immobili, resi eterei ed eterni sotto forma di quadri, la veemenza della cromia, l'incorporea presenza di fumi colorati, le maschere visionarie e gli abiti dal potere evocativo.
L'arte di Baloji non procede secondo una linea retta: è un'anima multiforme, un'entità errante e artigiana capace di attingere dalla storia del cinema africano (uno su tutti, l'omaggio alla motocicletta cornuta di Touki Bouki), dall'immaginario mistico del Paese di origine, dalla scena creativa contemporanea, dall'ambito musicale e performativo.
Senza alcun bisogno di nascondere le fonti che l'hanno ispirato - nei credits di Peau de Chagrin / Bleu de Nuit sono infatti menzionati autori e opere che ne hanno influenzato la genesi, da Patrick Willocq a Luc Tuymans - il regista belga-congolese si muove avanti e indietro nel tempo e lateralmente nella modernità, attraversando differenti realtà e continenti, alla costante ricerca di un futuro ancora da scolpire, di un'opera-mondo che, nutrendosi di ciò che è e ciò che è stato, possa farsi horror vacui, riempimento di ogni assenza, di ogni incolmabile distanza.