Azione, Drammatico, Focus, Netflix, Recensione, Tragedia

ATHENA

Titolo OriginaleAthena
NazioneFrancia
Anno Produzione2022
Fotografia
Scenografia
Musiche

TRAMA

Alcune ore dopo la tragica morte del loro fratello più piccolo in circostanze misteriose, la vita di tre fratelli è catapultata nel caos.

RECENSIONI

POLEMOS

 

Stress - No Church in the Wild - Les misérables

Una stazione di polizia: la conferenza stampa sulla morte di Idir, un ragazzino vittima di un pestaggio di cui gli agenti sono accusati: da una parte Abdel, il fratello della vittima  - sottufficiale dell’esercito, rientrato dal Mali - che manifesta una calma trattenuta, dall’altra il fratello minore Karim che dà il segnale ai compagni che lo circondano: il lancio della molotov è l’inizio di un assalto che culmina nel furto della cassaforte del posto di polizia, nella fuga su un cellulare, nel successivo assedio di Athena, il quartiere-città, avamposto fortificato che sembra già pronto ad assorbire l’onda d’urto delle truppe antisommossa.
Ancora una volta il lancio di una bottiglia incendiaria apre la cruenta danza della rivolta (rinvio alla recensione di I miserabili di Ladj Ly per Gavras videomaker + Gavras & collettivo Kourtrajmé). Come in Stress (il video dei Justice), come in Born Free (long video per M.I.A.), come in No Church in the Wild (clip per Jay Z e Kanye West) il regista piomba sugli eventi in medias res: non ci sono preamboli esplicativi, si è subito calati nell’azione. Ed è uno dei punti, questo, che dice quanto Athena sia diversissimo da I miserabili, film che squadernava un quartiere come una scacchiera, ne spiegava le dinamiche sociali mettendo a nudo i fragili equilibri su cui si reggeva. In I miserabili alla sommossa si arrivava con premesse chiare: la rivolta era il culmine di un discorso. Qui lo scontro che porta all’incendio di un’intera nazione è l’incipit (clamoroso) e il nucleo del film: tutto vi diparte, ciò che vi è sotteso lo si raccoglie frammentario, incompleto, pezzo dopo pezzo, durante il percorso.

La nota foto di John Harris sulle cariche dei poliziotti contro i minatori in sciopero nello Yorkshire, come evocata in No Church in the Wild

E se Ladj Ly ci consegnava uno spaccato di realtà, dando alla sua opera un taglio dichiaratamente documentaristico (la vicenda si ispirava a un fatto realmente accaduto) facendone quasi uno studio sociale, per quanto filtrato dalla letteratura (il dichiarato Victor Hugo), in Athena c’è pura rappresentazione, iconografia della lotta civile (ancora No Chuch in the Wild ), c’è Il Gladiatore, Troy, Il pianeta delle scimmie, c’è una Francia sull’orlo dell’implosione in un film che dal naturalistico sfocia nel fanta-apocalittico. In I Miserabili c’era l’oggettività geografica di Montfermeil, nell’opera di Gavras dalla realtà si parte e la si sublima nella mitologia. Athena, appunto: una suggestione olimpica, un mondo immaginato in fermento, percorso da molteplici punti di vista. E il film la sua messa in scena, una creazione che guarda alla tragedia (dichiaratamente) e all’opera (gli enfatici cori delle musiche di Gener8tion - ovvero Surkin - che volge in sinfonia anche un brano del compianto DJ Mehdi a cui il film è dedicato): la guerra civile (che implica l’autodistruzione) in una rappresentazione ostentata che si radicalizza fino all’astrazione.

Teatro di guerra


È questo che spiazza dei lavori di Gavras, quel glissare i normali passaggi dell’immedesimazione spettatoriale, disorientare il pubblico con contesti riconoscibili, ma presentati secondo coordinate impreviste, come quando il regista ha portato la videomusica e la sua retorica laddove non si erano mai viste: dalla banlieue in fiamme al campo rom, dal mondo degli sbandati un po’ freak della profonda provincia francese al deserto marocchino (che diventa pista da ballo), una rivoluzione che ha segnato un linguaggio che con questa visione delle cose fa ancora oggi palesemente i conti (lo ripeto da anni come un mantra: il più influente videomaker del nuovo millennio). Allora cos’è
Athena? È epica contemporanea (le moto come destrieri, i caschi come elmi, l’entrata dell’eroe Karim nelle mura e il discorso alle truppe, l’accampamento, lo schieramento a testuggine della polizia eccetera), una messa in scena del caos bellico secondo canoni smaccatamente teatrali (gli ingressi e le uscite dei personaggi, le scenografie della città fortificata, i bastioni), un artificio scenico moderno che si nutre di forme classiche e che nell’oggi guarda a un tempo originario e ancestrale, un congegno studiato in ogni dettaglio, coreografato, mixato con le logiche dell’esperienza immersiva che appartengono anche al mondo della VR (è un caso se l’allestimento della Grecia alla Biennale di Venezia 2022, Oedipus In Search of Colonus di Loukia Alavanou, sia un’opera in virtual reality che mette in scena la tragedia di Sofocle in un campo rom? Io non credo). 

I Believe, video di Gavras per i Simian Mobile Disco (2007) e Oedipus In Search of Colonus di Loukia Alavanou (2022)

Ladj Ly (che co-sceneggia Athena), intervistato, mi dice del regista: «È come se avesse organizzato in maniera militare il caos» [1]. È il punto: Gavras non lancia messaggi attraverso le immagini, lancia solo le immagini, quelle delle ferite di un mondo in bilico, attraversato da movimenti convulsi e contraddittori di cui si fa testimone. Ascoltando le voci capricciose della Storia, interpretandone liberamente le deformazioni (come negli spettri totalitari che abitano Gosh, il video per Jamie xx), le trasforma in sequenze muscolari, visivamente potenti, esteticamente seducenti. Ed è proprio il virtuosismo del gesto [2] che, applicato a certi temi, diventa disturbante, perché rende ciò che vediamo bello da guardare. Così facendo il regista tira fuori il pubblico dalla sua zona di comfort, lo scuote dall’intorpidimento. L’alto stile è la sua strategia della tensione, per così dire: ti induco a guardare, ma non ti dico cosa devi pensare, ti spingo piuttosto a interrogarti sul tuo atteggiamento (rifiuto, compiacimento, stizza, fascinazione, sospetto) di fronte a ciò che vedi. Il turbamento come viatico alla consapevolezza (di sé). Che poi è metodo e procedimento di tanta arte contemporanea.

Di lì il fastidio e l’estasi, il radicalizzarsi delle opinioni, lo schierarsi pro e contro, perfettamente in linea con quanto accaduto col suo lavoro di videomaker che ha sempre affidato tutto all’immagine. Ché Gavras ha in essa una fiducia totale, quella che, molto spesso, non nutrono coloro che sull’immagine ci ragionano. Non sorprende che, come all’epoca di Stress, le critiche nei confronti del film si concentrino su ipotetiche mancanze, su quello che nel film non c’è, quello che si è abituati ad associare a certe scene e a un certo immaginario e che nel film non si trova: non c’è trama (tradotto: sono qui per il racconto, dammelo cazzo), i personaggi non hanno spessore (mi aspetto dialoghi e introspezione, smettila di bombardarmi), non c’è una denuncia chiara (questa violenza degli ultimi mi dà voglia di indignarmi, perché non la agganci a qualcosa che possa condividere?). Automatismi messi in crisi. Si torna a quanto dicevo prima: i lavori di Gavras, come macchie di Rorschach diventano specchio di che le guarda - bisogni e frustrazioni - e proprio per questo sono riusciti quando suscitano reazioni contrastanti, critiche da destra e da sinistra, una stella o cinque, nessuna mezza misura. La sua opera non è intellettuale, aggredisce i sensi, lavora a un livello primordiale e simbolico: così Athena mescola la tragedia con la strada, il popolare con l’erudito, il lirico con il rudimentale. È fatta di figure in azione (e in reazione) non pensanti, istintive, sotto pressione: l’immersività di cui sopra, rivendicata dal regista, aderisce a questa dimensione “traumatizzata”, ce ne rende partecipi, proietta le emozioni dei personaggi, non una loro dimensione riflessiva. Così il conflitto familiare viene interrogato attraverso lo scontro collettivo e la sua virulenza. Così le istanze del dramma sono incarnate da personaggi immersi nel tumulto, magnificati dalla macchina da presa e trasformati in modelli (Karim - il ribelle che, come Cesare di L’alba del pianeta delle scimmie dice NO - è giovane e bello, un testimonial della ribellione, un samurai ligio al bushido e, nelle sue sembianze cristologiche, già un martire - foto in alto -). Così sequenze e scene sono concepite per marchiare a fuoco lo schermo in una dimensione che vuole sfuggire al suo tempo e aspirare al senza tempo, tempestata di frammenti icastici o irreali. La sequenza del cavallo, come quella dell’elefante in No Church in the Wild, è l’ennesimo smarcarsi dalla realtà, l’ennesimo forzarne i limiti ponendosi appena un passo fuori dal naturalismo, in una terra di mezzo dove si respira l’aria del mito.

Intanto lo sguardo rimbalza da una barricata all’altra, non ci sono buoni né cattivi, tutto si mischia: un ribelle indossa il giubbotto antiproiettile di un agente; quando il furgone di Karim e dei suoi compagni arriva ad Athena viene attaccato perché il veicolo è della polizia [3]); un poliziotto è fatto prigioniero dai ribelli, ma esce dalla città con le mani alzate come i suoi carcerieri. È tutta una questione di marchi ostentati, divise che si indossano e si dismettono. Si è pedine bianche o nere, ma sempre pedine, come il finale sancisce in maniera definitiva: la guerra un ingorgo fatale nel quale veniamo risucchiati, qualcuno che nell’ombra tira le fila.

[1] Intervista a Romain Gavras e Ladj Ly su Film Tv 39/2022

[2] Non dirò del pianosequenza iniziale: le immagini parlano, appunto.

[3] - Dit leur que c’est nous!
       - Je m’en bats les couilles!

Romain Gavras è uno degli autori di videoclip musicali più rivoluzionari, fondamentali e fondativi dell'ultimo quindicennio. Big bang fu Stress, realizzato per i Justice nel 2008. La sua esplosività incendiaria al di là del bene e del male (che generò un'onda lunga di polemiche) definì l'estetica casseur in un capolavoro e pietra miliare. Athena, terzo lungometraggio di fiction firmato Gavras, non soltanto pesca nel medesimo immaginario ma è un ciclo continuo di autocitazioni alla lettera. Due anni più tardi Born Free, per M.I.A., suscitò nuovamente scalpore per la violenza esplicita e - stavolta con qualche ragione - per la spettacolarizzazione di un tema politico (il genocidio Tamil) non rappresentato in termini assoluti, come era in Stress che in quanto sfregio artistico giustamente rigettava il discorso, bensì con qualche pretesa di racconto specifico rimasto allo stadio superficiale. Può essere una coincidenza ma all'epoca di Born Free - 2010 - comincia una stretta e incredibilmente versatile collaborazione di Gavras con l'advertising che va a illustrare l'alta moda come lo streetwear e le automobili coprendo una gamma di immaginari che stanno su poli diametralmente separati e fanno pensare a un linguaggio buono per tutte le stagioni ma, legittimamente, non ideologicamente fondato.

Tanti maestri del videoclip sono passati al lungometraggio con alterne fortune, da Spike Jonze a David Fincher a Michel Gondry in giù. Romain Gavras, sempre nel 2010, cambia formato ma non vuole reinventare una lingua. Una delle figure più usuali e efficaci del videoclip è il piano sequenza perché permette una concentrazione di eventi e insieme l'unità formale. Negli anni novanta, per esempio, prese piede la combinazione piano sequenza più camminata grazie a clip epocali e iconici quali Bittersweet Symphony dei Verve che non possiamo più ascoltare senza visualizzare simultaneamente il passo spavaldo di Richard Ashcroft fasciato dal chiodo sul marciapiede londinese. Il piano sequenza è anche l'arma più forte di Athena che ne fa un'esibizione virtuosistica e muscolare continua. Il fallimento spettacolare (in tutti i sensi) del film comincia qui.

Ci sono due Athena, prima e dopo i titoli di testa. Il primo, per forma e durata, è letteralmente un videoclip ed è efficacissimo: una scena fine a stessa e compiuta innescata (pun intended) da un'atmosfera che detona in esibizione ipercinetica spettacolare dal ritmo esatto e si risolve in un'immagine potente. Il secondo, purtroppo, è un film. Ciò che era cominciato ricordando Mad Max - Fury Road finisce sinistramente in una versione spocchiosa e autocompiaciuta di 1917 di Sam Mendes dove l'immersività è ragione necessaria e sufficiente. Ogni singola scelta registica eminentemente filmica è catastrofica. In ordine sparso: il tappeto sonoro costante e invasivo che esalta ogni colore emotivo e ribadisce ogni concetto imboccando lo spettatore nell'eventualità non fosse in grado di capire ciò che sta vedendo (per inciso si tratta di una vera pandemia nel cinema/serialità contemporanei); la recitazione imposta ai personaggi che tengono fissa la stessa faccia intensa piena di birignao dalla prima all'ultima inquadratura (vedi l'insostenibile personaggio di Karim con la paresi da Cristo in collera a suggerire, fino al telefonatissimo martirio, la più elementare delle allusioni); la sceneggiatura come collage di scene madri senza partitura; i virtuosismi costanti fini a loro stessi che ricacciano il film in un aesthetic senza traccia di senso dell'umorismo che è la definizione di kitsch.

Come, a mio parere, le polemiche a proposito di Stress che avrebbe voluto fornire un'immagine gratuitamente violenta delle terze generazioni delle banlieu fraintendevano completamente l'oggetto affidandogli intenzioni di documento che non voleva avere mentre potevano avere appigli sul clip per M.I.A. che rappresentava le forze effettive in atto (i rastrellamenti e i sequestri da parte dei militari), così la questione ideologica non può essere stralciata dalla lettura di Athena. La sceneggiatura firmata da Ladj Ly - che ha girato, invece, un bellissimo film di banlieu, Les Miserables - affonda nel contesto sociale ambientale reale, nelle violenze della polizia francese, nei casi di guerriglia urbana, nelle condizioni di emarginazione della cintura urbana parigina. Il trattamento spettacolare continuo, la superficialità con cui si ammanniscono stereotipi perché tanto ci sono le immagini a effetto, la versione videogame della sociologia, la riduzione a viaggio turistico immersivo in una periferia difficile genera una infantilizzazione dello sguardo che ha l'apice in una breve scena finale che dovrebbe servire a dare la morale e risulta insultante per quanto è facile, manichea, banale credendo di essere epica. Non stupisce si tratti di un film prodotto da Netflix.