Commedia, Sala

ASSOLO

TRAMA

Flavia è una single in analisi con due figli e due ex mariti. Fragile e maldestra, è alla ricerca della propria sicurezza e di una nuova chance amorosa.

RECENSIONI

Dopo l'esordio registico con Ciliegine (La cerise sur le gâteau, 2012), Laura Morante torna alla commedia, come si torna sempre all'amore (fallimentare) e alla necessità di s-drammatizzarlo.
Dagli strascichi dell'ultimo Resnais (Morante ha recitato da protagonista in Cuori, 2006), di cui si avvertiva l'emulazione faticosa, il tentativo francesizzante, il giro di vite più retorico che malinconico, l'equivoco protratto fino allo sfiancamento (in Ciliegine arriva il punto in cui si vorrebbe intervenire da qualsiasi angolo di fuori campo per esclamare «ve ne prego, parlatene un attimo e risolvetevi»), Assolo si vota a una maggiore leggerezza e a una certa italianità.
Due cose che, in genere, sopratutto se messe insieme, è arduo stabilire se siano un bene o un male.
Dal precedente cast francese, eccoci in un circondario locale che non teme musonerie, non sfocia nel macchiettismo, ma neanche sfugge a una tipizzazione molto convenzionale, risultando tanto efficace-simpatico-talora perfino spassoso, quanto risaputo.
Ma non importa: se fa ridere o sorridere, ridiamo, sorridiamo, male non farà. Non farà però neanche molto altro e nemmeno lo richiede, poiché il film si pone come si dichiara, a partire dal titolo e nella definizione da dizionario conclusiva, ossia un'esecuzione solistica e un pezzo di bravura (qui non senza ammiccante autoironia). Dunque procede con la sua scrittura coerente (di nuovo Morante – Costantini co-sceneggiatori), ritmato fra gag comico-surreali, ansie, imbranataggini, amarezze, con l'aiuto (anche quello replicato) delle musiche di Piovani. Una bolla di sapone che, se non posa, neanche pesa.

Più interessante invece notare nella “voce sola” che si autodirige e orchestra i comprimari, una Morante più lieve del suo solito, che affronta il discorso sull'età con una punta di malinconia consapevole, un'aria bambinesca che risulta dolce e mai sciocca, un'immancabile ansia che però, benedizione, si esime dall'isteria, e tanto tanto (facciamo troppo) flou fotografico dedicato. Ne risulta una femminilità indubbiamente graziosa, di chi non si accorge di esserlo e, qui il punto del film, farebbe bene ad accorgersene, specialmente in una serata di tango in cui, se l'assenza di autostima inibisce la mirada, si rischia di non alzarsi mai dalla sedia.
E poi una punta di malizia, una punta di romanticismo, eros represso-espresso in una sequenza di ballo in bianco e nero con abito e scarpe rosse (un classico) e sogni in verde e rosso di cui l'analista (Piera degli Esposti) non ci offre grandi spiegazioni. Eppure l'accostamento mette in gioco, consapevolmente o no, una binarietà segnaletica fra licet-non licet, stop-go, inibizione-disinvoltura, che ben si presta alla metaforizzazione di un percorso psichiatrico (oltre a costituire, il verde boschivo e i dettagli in rosso, un luogo topico della psiche stessa).
C'è di che intrattenersi, consolarsi di qualche microtragedia, e poi uscire dall'armadio senza fare i capricci (vedi finale del film).