Giallo, Recensione

ASSASSINIO SULL’ORIENT EXPRESS (1974)

Titolo OriginaleMurder on the Orient Express
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione1974
Genere
Durata131'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo di Agatha Christie

TRAMA

1935. A bordo del lussuoso treno del titolo viene brutalmente ucciso un collezionista d’arte: Poirot indaga.

RECENSIONI

Signore e signori, il giallo non è servito: la trascrizione (per meglio dire, la riscrittura) cinematografica di uno dei più celebri romanzi della Christie è un whodunit che, con fare sornione, vanta e nega la propria origine, superando le auguste(/anguste) barriere del genere nel momento in cui ne conduce all’apogeo le caratteristiche (in)naturali. La situazione fondamentale del giallo classico (un luogo chiuso e ristretto, un delitto enigmatico e molti, troppi indiziati) è esasperata in ogni dettaglio: lo spazio, fisico e temporale, è estremamente esiguo (due vagoni perduti nella pianura innevata, che non possono disfarsi delle candide catene prima dello scioglimento conclusivo), il crimine di circostanza è un rompicapo più complesso del solito (sovrapposizioni di voci, corpi e istanti, verità nascoste ma non troppo, o forse fin troppo, armi e bagagli mossi da un burattinaio invisibile), i sospettati formano un campionario umano (à la Balzac, come nota il detective belga) all’interno del quale è difficile scovare legami, moventi, alibi. Poirot inizia le indagini, e la realtà, già intuibile dalle prime inquadrature (per tacere dei titoli di testa, sobriamente eleganti e spensieratamente pomposi), emerge in pieno. A Lumet non interessa affatto la scoperta del colpevole, e dopo qualche minuto anche allo spettatore passa la voglia di sapere quello che è “davvero” accaduto nel rumoroso silenzio del vagone letto, poiché gli indizi raccolti rivelano una bellezza frammentaria che trova in se stessa (e non nella postuma ricostruzione di un disegno unificante) una valida ragion d’essere. Il fulgore del dialogo (che nella versione originale, screziata di accenti d’ogni foggia o quasi, assume con ogni probabilità una valenza molto diversa rispetto alla pur dignitosa edizione italiana), il cast d’immensa bravura e irresistibile fascino (su tutti e tutte la “tragica” Bacall e la poliglotta Bergman), lo sfarzo e la cura filologicamente maniacale della ricostruzione d’epoca (e della decostruzione: il film è stato girato nelle vere carrozze dell’Orient–Express), la regia all’apparenza anonima, in realtà abile nel muoversi con passo felpato e insinuante fra i personaggi e dentro di loro, cogliendone con un primo piano improvviso un sussulto sfuggente: sono questi, forse, gli argomenti che inducono persino l’integerrimo Poirot a esporre il teorema della verità per mutarlo immediatamente nella soave architettura di una macchina mai così paradisiaca. Il giallo si svela (ottimo) pretesto per un racconto morale sulla felice menzogna, che può finire con un brindisi da commedia goldoniana, mentre l’inverno dello scontento (di uno solo, cioè dell’odiosa vittima, che rimane giustamente sepolta nel riconquistato oblio generale) si sgretola trionfalmente sui titoli di coda.