TRAMA
Un incendio brucia l’agriturismo “Assandira” e ci scappa pure il morto. Incidente o dolo? Il superstite Costantino racconta cosa è accaduto ai Carabinieri e a un giovane magistrato. La verità porterà a nuove consapevolezze.
RECENSIONI
Salvatore Mereu si interroga da sempre sulla sua terra natia, la Sardegna, attraverso i contrasti tra un mondo immutabile e arcaico e la continua evoluzione dei tempi che impone invece nuovi approcci. La sua filmografia, con il bell’esordio Ballo a tre passi e i successivi Sonetàula, Tajabone e Bellas mariposas, ne è una riprova. Questa volta l’urgenza comunicativa passa attraverso una cornice meno documentaristica e incline addirittura al thriller. Il suo film diventa infatti quasi di genere, perché comincia con un cadavere e un mistero che progressivamente la narrazione cerca di svelare. È subito chiaro che ciò che interessa al regista non è tanto risolvere il giallo di una notte sfortunata e all’apparenza indecifrabile, quanto indagare un mondo e i suoi riti a rischio di estinzione. Il compromesso scelto di imbastire un’inchiesta investigativa gli permette di arrivare potenzialmente a un pubblico più ampio e comunque deriva dalla decisione di trasporre un testo letterario (l’omonimo romanzo di Giulio Angioni) dalle coordinate ben precise. Il protagonista è Gavino Ledda, già autore di “Padre Padrone” e qui interprete di Costantino, un pastore a cui viene chiesto dal figlio di trasformare l’ovile di famiglia in agriturismo. L’idea è quella di sfruttare la voglia di folclore di chi viene dall’estero dando priorità al mito piuttosto che alla realtà. Il pastore Costantino, per compiacere figlio e nuora tedesca, si trova quindi a interpretare il ruolo del pastore vestendo un abito tipico. Una messa in scena che non cerca l’autenticità ma solamente la sua rappresentazione, come in un parco tematico. La vicenda è ambientata negli anni ’90, non ci sono ancora i social media ma la moglie tedesca del figlio, attraverso le continue polaroid che scatta, anticipa i selfie contemporanei e il bisogno di apparire.
Poi il racconto aggiunge ulteriori tasselli che affrontano e sfiorano tematiche forti (la maternità, le dinamiche affettive nel rapporto di coppia e in famiglia, l’intrico delle pulsioni carnali) caricando i personaggi di ambiguità. Un’ombra di moralismo si affaccia, insieme all’equazione “passato mitico rovinato da presente volgare e corrotto”, ma poi le ragioni dei personaggi si complicano, le dark lady si ridimensionano e il discorso si fa più stratificato e sfumato. Perché non si vuole demonizzare il presente, ma ragionare su di esso attraverso una struttura di finzione in grado di stimolare il confronto. È quindi un cinema giocato sui contrasti quello di Mereu (dialetto/italiano, verità/spettacolo, mitezza/ruvidità, apertura/chiusura, nuovo/vecchio), finalizzato a un’analisi etnico-antropologica. Fondamentale per dare credibilità al racconto la presenza di Ledda. In quel volto scavato dalle rughe, nella parlata ruvida, dialettale e ipnotica, nella sopita vitalità che si traduce in rassegnazione, c’è tutto il conflitto tra passato e presente che Mereu vuole comunicare.