Drammatico, Recensione

AS TEARS GO BY

Titolo OriginaleWong Gok Ka Moon
NazioneHong Kong
Anno Produzione1988
Durata102'

TRAMA

In un quartiere popolare di Hong Kong, Wah, un gangster di bassa lega protegge e cerca di tener fuori dai guai Wing [Fly] un ragazzo più giovane, al quale è legato da un astretta amicizia e dalla comune esperienza di vita pericolosa. Quando il gangster si innamora di sua cugina, matura il desiderio di lasciare quella vita di espedienti e illegalità.

RECENSIONI

Rifare Mean Streets – il capo d’opera di Martin Scorsese secondo chi scrive - sarebbe un’autentica follia, se dietro la macchina da presa non ci fosse Wong Kar-wai e se davanti non recitassero interpreti straordinari quali l’ineffabile Maggie Cheung, il fascinoso Andy Lau e, soprattutto, il mercuriale Jacky Cheung. Vincitore dei premi per il Miglior attore non protagonista e per la Miglior direzione artistica all’“Hong Kong Film Awards” del 1989, l’esordio alla regia del cineasta cinese è infatti una rilettura impetuosamente libera del capolavoro scorsesiano del 1972, inserita in un sistema culturale dislocato e interpretata con una sensibilità pienamente postmoderna. Lo spostamento geografico e cronologico produce una violenta deformazione estetica: il sulfureo iperrealismo della pellicola di Scorsese si tende, assottigliandosi, in superfici iconiche tiratissime, sul punto di lacerarsi. Schermi fosforescenti, lastre riflettenti, bagliori artificiali: un universo privo di profondità, vitreo, dove la luce artificiale pulsa, guizza, rimbalza senza posa. La materia narrativa è sottoposta ad un’analoga tensione tematica: Wong travasa la crepitante componente religiosa in quella mélo, descrivendo il rapporto sentimentale tra Wah (Andy Lau) e Ngor (Maggie Cheung) come potenzialmente salvifico e investendolo così di una purezza abbacinante. Il voltaggio emotivo che ne deriva è elevatissimo. Anche la gangster story beneficia di questa sfrenata intensificazione drammatica: tra Wah e Fly (Jacky Cheung) si stabilisce una dirompente relazione transitiva, le colpe del secondo passando direttamente – e tragicamente - sul primo. La fisicità degli attori è per così dire annullata e insieme esaltata da questo trattamento iperbolico: i corpi sono trasformati in sagome bidimensionali, involucri traslucidi, puri oggetti di consumo visivo. La convenzionalità della vicenda – giovani delinquenti muoiono – viene così riscattata dalla radicalità della trasfigurazione estetica, radicalità che fa di questa pellicola un vero e proprio saggio di iconografia postmoderna. Un saggio al calor bianco. Almeno tre le sequenze da mandare a memoria: la vendetta al coltello di Wah nel ristorante (tutta in ralenti e inondata dal candore dei tubi fluorescenti), lo struggente incontro tra Wah e Ngor sulla banchina – girato e montato come una via di mezzo tra un agguato e un videoclip – e lo spasmodico finale, tutto rumori, detonazioni e sangue. A occhi sbarrati.