TRAMA
Dopo anni di lontananza, la diciannovenne Arianna torna con i genitori sul lago di Bolsena. Come ogni adolescente, è immersa nella conoscenza di sé; la sua immatura femminilità, in contrasto con l’esuberanza allegra della cugina, è la traccia che la condurrà a una scoperta decisiva circa la propria identità.
RECENSIONI
Esordiente nel lungometraggio d’invenzione, Lavagna non fa il passo più lungo della gamba e adotta le cautele formali opportune nel manovrare una materia rischiosa in sé, e oggi accidentalmente in primo piano per uno di quei ricorrenti rigurgiti di fanatismo tipici delle culture arretrate, le cui pulsioni vengono poi fomentate ad arte da miserabili manipolatóri politici
Alieno dal bozzetto patetico o pittoresco, l’autore rifugge pure dall’idealismo ornato – per non dire della verbosità – in cui si identifica tanto cinema intimista. Opta per un realismo d’ambiente con innocui tocchi di colore (la gustosa, tenera figura dello zio) e mano ferma nel tratteggiare un rapporto famigliare attendibile, privo di smancerie da rotocalco e sceneggiate melodrammatiche.
Nel suo minimalismo psicologico, non sottolinea fragilità insicurezze e interrogativi della protagonista, visualizzandoli senza insistenza, con tocco fugace; meritoriamente non fa appello alla simpatia o alla voluttà di commozione dello spettatore; non offre il conforto dell’idillio, osservato anzi con ammirevole freddezza, libera da compiacimenti sensuali. Semmai l’idillio emozionante è quello – vagheggiato dalla protagonista nel muto colloquio coi luoghi – che ha per interlocutrice la natura: alcuni ritorni melodici tanto più valgono in quanto poco concedono al grazioso degli scorci, per concentrarsi su dettagli fuori schema o austeri ensemble.
L’asciutta, rapsodica brevità espressiva è felicemente mutuata da modelli d’oltralpe (pensiamo all’ottimo Lifshitz), rispetto ai quali si colloca peraltro a uno stadio suscettibile di progresso sia nella profondità e ampiezza dell’indagine, sia nella coerenza espressiva; si pensi alla valorosa soppressione di alcune “zone di passaggio” del narrato, mentre altre – veramente superflue –sopravvivono a edulcorarne la violenza sintetica.
L’arte della sottrazione non fa di questa storia singolare un oggetto di facile consumo. Riserva poi un finale problematico in flagrante contrasto col senso comune: la caducazione dell’ambiguità – ossia della ricchezza di significati – seppure legittimata dalle tradizionali categorie culturali e del sapere medico, è un impoverimento, la triste vittoria riportata da uno sguardo dicotomico, di sterile fissità nella concezione del genere. Ogni semplificazione è una cancellazione; in termini psicologici, una rimozione; in termini culturali, una tabuizzazione.
