Drammatico, Fantascienza, Recensione, Streaming

ARCHIVE – NON MI LASCIARE

Titolo OriginaleArchive
NazioneU.K., Ungheria, U.S.A.
Anno Produzione2020
Durata109'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Anno 2038, Giappone settentrionale, un laboratorio di una potente multinazionale lontano da occhi indiscreti. Dopo J1 e J2, George Almore, progettista e costruttore di prototipi robotici prossimi a capacità e intelligenze umane, ultima J3, il suo androide migliore, il suo tentativo definitivo di riportare alla vita la moglie scomparsa in un incidente automobilistico di cui George si sente responsabile.

RECENSIONI

La fantascienza come gabbia del mélo, un preciso immaginario iconico a blindare la narrazione, una struttura temporale da disarchiviare. Archive - Non mi lasciare di Gavin Rothery – autore multidimensionale tra graphic design, games, visual effects, pubblicità e cinema, qui al suo primo lungometraggio da regista – situa plasticamente le sue traiettorie tra Frankenstein ed Ex Machina, tra la creazione e il fallimento, tra l'amore e la morte, tra la tecnologia del controllo e quella della disubbidienza, in un malinconico futuro che sembra essere più un luogo (o un falso non-luogo) che un tempo, dove i dischi di musica girano ancora, la fotografia è ancora materica, l'intelligenza artificiale danza. I robot di George Almore (Theo James) non sanno se le immagini che raccontano sono un ricordo o un sogno; non possono aderire mai completamente agli spazi che attraversano; soffrono le disattenzioni e le asimmetrie affettive del loro creatore; c'è uno schermo che mette in comunicazione il mondo dei vivi e quello dei morti (che però non sanno di non esserci più); il laboratorio in cui l'uomo è stato confinato dai suoi superiori, nell'innevata foresta del Giappone settentrionale, è casa, caverna, prigione, un posto lontano e inaccessibile eppure mai impermeabile al pericolo, proprio come il sentimento di George. L'amore è una linea di fuga incerta, una rimemorializzazione, un trasferimento di dati, un tentativo certosino e disperato, un androide. L'assenza della moglie Jules (Stacy Martin, che è anche J3 e la voce di J2) è nei flashback ritornanti, nella sintesi insistita tra sguardo d’autore e paranoiche zone d'ombra di thriller industriale, tra filosofia in minore e metodica estetica visiva, tra personaggi di contorno ambigui (sono reali? sono proiezioni? chi sono?) e le motivazioni del protagonista, tra le camere del laboratorio e il mondo esterno.

Rothery cerca lo scarto nella ripetizione, il segno compositivo nell'accumulo narrativo, la forma centrifuga nella tematizzazione centripeta, il vero effetto speciale nel rovesciamento finale, come a voler instillare uno smarcamento di senso, di prospettiva, di analisi, di sguardo. Cerca nella fantascienza un territorio intimistico, analogico, il simulacro che si incarna, che si sostanzia, che vive; tenta di insinuare nel protagonista un contemporaneo varco d'uscita e di ingresso spettatoriale, una traccia progressiva e digressiva, essenziale e distorta, facendo di George – involontariamente – quasi più un oggetto che il soggetto del film, quasi semplificandone le possibilità, le potenzialità, occultandone gli abissi emotivi, negandogli il conflitto, il dissidio, limitando dunque la forza del personaggio. E forse, alla fine, ciò che più risulta essere di stridente interesse in quest'opera, è proprio quello spazio vuoto tra l'Archive come congegno testuale, come palinsesto audiovisivo, come performance stilistica, e l'Archive che racconta ossessivamente un uomo ma a cui sfugge proprio la sua ossessione.