Drammatico, Recensione

ARAF

Titolo OriginaleAraf
NazioneTurchia/Francia/Germania
Anno Produzione2012
Durata124'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Araf – Somewhere in Between parla di due giovani, Zehra e Olgun, che conducono una vita immobile. Lavorano tutto il giorno in una stazione di servizio in cui tutto appare transitorio e senza senso, dove la monotonia e la banalità  dei turni di lavoro sono spezzate solo dagli slanci delle loro aspettative di un futuro migliore, ma che si rivelano essere improbabili e ingenue. Per sfuggire alla noia e al vuoto passano il tempo libero a guardare trasmissioni televisive che li ipnotizzano con la promessa di un percorso semplice e veloce verso una vita fantastica. Il distacco tra sogni e realtà  diventa un abisso profondo. Quando un giorno d’inverno arriva Mahur sul suo camion, Zehra e Olgun si scuotono, come se fossero caduti a precipizio in un canyon psicologico. Il triangolo amoroso e la conseguente tragedia mandano in frantumi le illusioni su cui avevano costruito le loro aspettative. Il rito di passaggio è agrodolce e li fa risvegliare. Scoprono la vita vera e sfuggono al circolo vizioso delle loro paralizzanti illusioni. Soffrono nello scoprire la differenza tra passioni inebrianti e vero amore, ma attraverso la sofferenza trovano la via della speranza. Tutto però a costo della loro infantile innocenza. (dal sito della Mostra)

RECENSIONI

Somewhere in Between. Il limbo messo in scena da Araf è quello sospeso tra una Turchia misera, marginale e il sogno che imita la cattiva televisione. La Ustaoglu cancella gli orizzonti dei giovani protagonisti nel martirio di una fotografia livida, nel fumo che annebbia i confini della città, nella minuzia di squallidi dettagli, nella routine di quel non luogo (la stazione di servizio) in cui i giovani disperdono il proprio io, mentre il mondo scorre anonimo di fronte a loro, così sfuggente/repentino/aleatorio nelle sue forme da non permettere mai la cristallizzazione in identità, la vaga possibilità di riconoscere o conoscere. Così i due si trovano soli nell’abiezione del nulla, a confronto con i propri desideri: lui crede nella sorte, non reputa possibile una realizzazione personale, non ne ha il talento, e, se ne avesse, non avrebbe l’occasione per esprimerlo. Le ambizioni di lei sono da romanzetto sentimentale o soap opera stantia: articolano illusioni e arrancano dietro speranze come il colpo di fulmine, la fuga, la liberazione. Le loro famiglie, il residuo minimo d’istituzione, sono in frantumi, scisse tra il dogma e il senso di colpa della trasgressione. E se i due vogliono partecipare a Affari d’oro (il nostro Affari tuoi) o cedere all’amore di un uomo maturo, è solo per raggiungere ciò che credono si definisca normalità. La Ustaoglu incamera il quotidiano inferno di questi giovani privi di futuro e l’apocalisse sociale che li abbraccia, li stringe, li soffoca: il dispositivo con cui capta gli umori di questa ricostruzione di degrado è discontinuo, prevede ellissi e ostinazioni oscene sulla durata dei gesti, il découpage classico e il pianosequenza, lo sfoggio pittorico e la noncuranza. Al sodo c’è un ritratto di didascalica denuncia, di medietà e buon senso intellettuale persino stucchevole, che si deforma, sul finale, nel grottesco ritorno all’unica terra madre possibile di questa retorica del dolore: la televisione. In questo coup de théâtre conclusivo l’opera acquista una sua originalità, trasformando il realismo nella propria caricatura, ponendosi a confronto con la voracità di realtà, con ciò che qui si voleva nobilitare, come a riconsegnare se stessa, oltre ai propri protagonisti, al piccolo schermo che ha partorito quest’approccio e quell’immaginario.