APPUNTAMENTO A BELLEVILLE

Titolo OriginaleLes Triplettes de Belleville
NazioneFrancia/ Belgio/Canada
Anno Produzione2003
Durata78'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Il ciclista Champion scompare durante una tappa del Tour de France. La nonna, Mme Souza, parte alla sua ricerca…

RECENSIONI

Una foto sbiadita, ricordo di una felicità perduta senza essere stata assaporata, spinge il piccolo (futuro) Champion a consacrare la propria esistenza alle due ruote. Il tempo sfoglia le pagine d’album, il silenzio della provincia viene violato dalle lancinanti luci e dai mille rumori (parole comprese) della città, il giovane ciclista cerca di convertire i tragitti circolari compiuti nel giardino di casa in un percorso rettilineo e glorificante: sarà salvato dalla trepida e inflessibile nonna, aiutata da un cagnone pigro e metodico e da un trio di deliziose cariatidi da café-chantant. Il primo lungometraggio di Sylvain Chomet è un caleidoscopio (introdotto dal brillante velo su cui si succedono i titoli di testa) d’immagini capaci di unire tratti spigolosi à la Hirschfeld all’onirica inventiva di un Emanuele Luzzati, un calderone animato che ospita echi e souvenir dei classici della comicità, da Tati (fin troppo esplicitamente citato e addirittura “incastonato”) a Chaplin (Mme Souza alle prese con la macchina infernale che le ha rubato il nipote) ai fratelli Marx (il trio eponimo). La sezione francese del film è di gran lunga la più interessante: le numerose e spesso irresistibili gag di cui è disseminata non fanno che accentuare il mood teneramente elegiaco dell’insieme, disegnando la muta sofferenza e i dolcissimi sogni dei personaggi, tratteggiando i riti quotidiani (il cane e il treno) che marcano il passaggio dei minuti (i quarti d’ora ricorrenti, le giornate che scorrono piatte e al tempo stesso degenerano lentamente e inesorabilmente verso un soffocante futuro), realizzando con pennellate lievi (perch)e(’) metodiche il ritratto di un piccolo mondo stuprato dalle frenesie di modernità, in grado – malgrado tutto – di riscattarsi attraverso la forza del passato.
La traversata dell’oceano a suon di Mozart, passaggio di grande effetto (e vagamente effettistico), introduce il capitolo americano (il cui set è una Manhattan di grassoccia e coloniale volgarità), non meno ricco del precedente nelle immagini (memorabili, fra gli infiniti dettagli, i comignoli a forma di bottiglia e il viso del villain trasformato dal montaggio in un hamburger imperiale) e nei personaggi (le suddette Triplettes) ma segnato da un gusto maggiormente meccanico: lo slapstick gangsteristico stupisce e diverte, ma non sa combinare spunti farseschi e funeree note a margine con la lucida eleganza dimostrata dalla prima parte (sola eccezione, la cena nell’appartamento delle anziane dive). La metalinguistica vertigine dell’epilogo, che, collegandosi alla prima (e unica) battuta di Mme Souza, richiama gli indizi sparsi con sorniona casualità nel racconto (il film anni Trenta, le foto nella camera di Champion, lo schermo bugiardo della sala scommesse), conclude alla perfezione un film non sempre all’altezza delle proprie premesse ma superiore, per verve allucinatoria e rigore musicale (il preludio bachiano, variato e “swingato” nelle varie sequenze), alla quasi totalità dei prodotti – non solamente d’animazione – preconfezionati dal cinema contemporaneo.