TRAMA
Dieci anni dopo i fatti del primo film, la popolazione (umana) terrestre è stata decimata dal Virus T-113. Cesare, intanto, nella foresta di sequoie del Muir Woods, è il maschio alfa di una sempre più evoluta colonia di scimmie. Lo scontro uomo/primate è imminente e inevitabile, ma il fatto che il film si intitoli “Il pianeta delle scimmie” fornisce diversi indizi sull’esito. O no?
RECENSIONI
Cominciamo facendo un po’ di confusione simil-distopica. Questa nuova saga de Il Pianeta Delle Scimmie instaura, con la pentalogia originale (e col remake obliquo di Burton), una relazione complicata. Non è chiaro, infatti, quanto gli eventi narrati siano un prequel-reboot alternativo ma diretto del film di Schaffner del 1968. Quanto, cioè, sia effettivamente quello lo sbocco narrativo della vicenda. L’indecisione, insomma, regna sovrana, e i titoli dei due film certo non aiutano a diradare i dubbi: il primo film dovrebbe raccontare la Rise (ascesa) of The Planet of the Apes mentre il sequel diretto parla di Dawn (alba). Non mi pare che la cosa abbia molto senso. Il sole, per fare un esempio stupido, prima sorge e poi sale, non il contrario, giusto? In compenso, i titolisti italiani ci hanno messo del loro. Anticipando i tempi, ma seguendo una logica temporale tecnicamente più stringente, hanno tradotto il primo “Rise” con “L’alba” del pianeta delle scimmie. Poi, poveracci, si sono ritrovati un secondo film che si intitolava proprio “L’alba del pianeta delle scimmie” e non potendo tradurre letteralmente si sono inventati un titolo inglese(!) alternativo, ossia quell’Apes revolution sul quale conviene stendere un velo pietoso / vello peloso.
Ora, convengo di essere andato un po' fuori tema prima ancora di iniziarlo, il tema, ma delle quisquilie scritte finora ce n'è una che rischia di diventare decisiva: l'approdo narrativo ultimo della vicenda è un mondo in cui le scimmie hanno 'vinto'? E Charlton Heston, alla fine, maledice - a ragione - gli uomini o no? Perché il nostro posizionamento, come spettatori, è importante. I link al film del '68 si fanno evidenti, sia a livello iconografico (le scimmie a cavallo) che sostanziale (le stesse scimmie iniziano a parlare e a strutturare la propria società in caste: Scimpanzé - 'cervelloni'; Oranghi - amministratori; Gorilla - soldati o guardie). Quindi siamo sempre più portati a pensare Dawn come un vero prequel e a leggere la storia in quella chiave interpretativa, diciamo ecologista in senso lato e fondamentalmente misantropica. E' la vecchia storia del'so già come va a finire ma l'importante e il bello è vedere come ci si arriva' (Sunset Boulevard, Carlito's Way ma solo per fare due titoli a caso), solo che la sceneggiatura di Bomback, Jaffa e Amanda Silver non sembra molto coerente su questo punto, diciamo che appare anzi volutamente vaga e cerchiobottista. L'innesco è il Virus T-113, ossia colpa degli uomini che giocano a fare dio e bla bla bla, ma poi, la guerra vera e propria la scatenano le scimmie (per stessa ammissione di Cesare). Si sa solo che, in un modo o nell'altro, l'Uomo perderà e il Pianeta finirà in mano alle Scimmie (il titolo qualcosa vorrà ancora dire- o no?).
La sensazione che lascia lo script è comunque quella di una vaghezza di fondo, una indecidibilità apparentemente voluta. Tutto, certo è leggibile come (o camuffato da?) problematizzazione della vicenda e delle psicologie, antimanicheismo, con tutte le possibile interpretazioni di stampo socio/geopolitico. Ma l’approccio sembra più di tipo seriale. Gli sceneggiatori, cioè, che prendono/perdono semplicemente tempo, senza precludersi nessun possibile sviluppo futuro, lasciando aperti ed esplorabili più sentieri drammaturgici (vedi Lost, per dire, o il recente The Leftovers). Gli occhi di Cesare, il dettaglio che chiude il film, sono solo determinati perché accettano l’ineluttabilità dello scontro o sono piuttosto incazzati e incattiviti dagli eventi? Agisce per cause di forza maggiore o è diventato “bellicoso”? E tutto questo, perché? Per sfumare i contorni, perché la natura umana e proto-umana è complessa o perché nel terzo capitolo chi scriverà la sceneggiatura sarà più libero di fare un po’ come gli pare?
Alla fine della fiera, comunque, Dawn of The Planet of the Apes risulta complessivamente riuscito. A tratti anche molto riuscito. Dopo un prologo un po’ stantio, infatti (il montaggio che riassume l’apocalisse chimica), tutta la prima parte “muta” risulta quasi sperimentale, se paragonata al consueto blockbuster estivo americano. Non si può parlare, tecnicamente, di racconto per immagini (c’è il linguaggio dei segni sottotitolato) ma poco ci manca. E Reeves si conferma un regista molto interessante, avendo già segnato gli Anni Zero con la splendida operazione Cloverfield e avendo girato un bel remake come Blood Story. Qui si mette al servizio di una megaproduzione insidiosa e attesa (Rise aveva sorpreso tutti), riuscendo nel duplice intento di dare al pubblico un prodotto comunque godibile e non estraneo alla sua collocazione elettiva (quando c’è da mostrare i muscoli digitali non si tira indietro) ma anche laterale, divergente. Non c’è epica liberatoria, né eroismo, o una valvola di sfogo rassicurante per l’accumulo di pathos. In maniera più o meno intenzionale, lo spettatore viene sballottato su diversi posizionamenti e accompagnato in un dedalo di personaggi e situazioni nei quali è difficile orientarsi. Per chi tifare? Scimmie o uomini? Per quali scimmie e per quali uomini? E i buoni hanno tutte le ragioni? E i cattivi hanno tutti i torti? Il tutto con quell’orizzonte furbescamente incerto, quell’epilogo conosciuto ex ante ma sul quale è lecito dubitare.
Su Serkis si dicono sempre le stesse cose, che non ridiremo. Gary Oldman era preferibile nei suoi storici ruoli di cattivo, quando gli bastava la proverbiale “particina” per mostrarsi inquietante (si pensi al Drexl di True Romance). Ora si è fossilizzato sull’espressione un po’ attonita del James Gordon di Nolan e sembra sempre un pesce fuor d’acqua, qualunque sia l’acqua, mentre Jason Clarke ci è parso troppo angelico/monodimensionale. Scimmie brave tutte.
