
TRAMA
Anora, una prostituta di Brooklyn, ha la possibilità di vivere una storia da Cenerentola quando incontra e sposa il figlio di un oligarca. Quando la notizia arriva in Russia, la sua favola è minacciata.
RECENSIONI
Proprio lì, al confine tra pathos e divertimento, tra leggerezza e tragedia, sta Anora. E sta, in verità, tutto il cinema di Sean Baker, da Take Out (2004, storia di un immigrato cinese senza documenti che lotta per tirare avanti ai margini della New York post 11 settembre) a Red Rocket (2021, decostruzione definitiva del sogno americano e delle sue storture). Passando naturalmente per The Florida Project (2017), unico altro film di Baker ad essere stato distribuito nelle sale italiane, opera delicata sullo struggimento del quotidiano ai confini della scala sociale. È forse per questo che i suoi microcosmi narrativi risultano tanto empatici quanto respingenti: perché non smussano, non censurano, non distolgono mai lo sguardo e, anzi, indugiano quel tanto che basta per alimentare la sensazione di disagio e impaccio. Un disagio chiamato esistenza, che permette di indagare sul subbuglio emotivo dei caratteri in gioco. Come Anora detta Ani, ad esempio: di lei – giovane spogliarellista in un club di Midtown Manhattan, che accetta clienti anche come escort e non si lascia intimidire dal denaro e dal suo significato – comprendiamo fin da subito le fragilità e la vulnerabilità, qualcosa che riesce a nascondere alla maggior parte delle persone; basta uno sguardo in più, o un gesto trattenuto, dietro l'evidenza esibita da donna scafata con una sua etica professionale. È lecito pensare che Anora creda all'amore, anche se – o forse proprio perché – arriva nel modo più strampalato possibile: dall'incontro con un ricco cliente occasionale, il viziato e goffo rampollo di un oligarca russo, Vanja, che dice di avere 21 anni ma ne dimostra 15. C'è spazio per la favola, e Anora vuole crederci: se è successo in Pretty Woman, del resto, può accadere anche nella realtà. Lei può essere la fantasia americana di lui (“Che dio benedica gli Stati Uniti!”, urlato durante un amplesso), e lui può diventare l'azzardo e il porto sicuro di lei, con la sua gigantesca villa sul mare e la sua dolcezza adolescenziale.
Si può pensare persino al matrimonio, che se fossimo in una rom-com verrebbe poco prima dei titoli di coda (e vissero tutti felici e contenti). Ma questa non è una commedia, e non è neanche un dramma. Semmai è vita, ventaglio di possibilità, dimostrazione di come siamo tutti immersi in un universo di circostanze, quasi sempre grottesche. Una deriva che per Baker passa attraverso una suddivisione netta di Anora in tre atti, ognuno dei quali funziona all'interno del proprio genere di appartenenza. Se la prima parte ha i connotati della storia d'amore, della Cenerentola aggiornata agli stilemi della contemporaneità, la seconda è una farsa screwball frenetica e pop, una scorribanda notturna tra Fuori orario di Scorsese (film della vita di Sean Baker, anche se tende a cambiarlo spesso: Idioti di Lars Von Trier, Le notti di Cabiria di Fellini, Oasis di Lee Chang-dong...) e Diamanti grezzi dei fratelli Safdie. Il “terzo tempo”, poi, fa salire finalmente in superficie tutto il dolore fino a quel momento tenuto sottotraccia, ma di cui da spettatori siamo consapevoli. Anora, che da giocattolo usa e getta passa a palla da demolizione incontrollata, si tramuta qui in essere umano. Baker si affida a piccoli tocchi quasi impercettibili per dare una forma e una dimensione alla sua protagonista (ma anche ovviamente ai comprimari, basti pensare allo scagnozzo Igor e al suo sguardo mai giudicante). Ani, ad esempio, è via via più vestita, man mano che il suo personaggio fa emergere la propria vulnerabilità. E il film, fiaba moderna oscena, come la maggior parte dei film di Baker ci parla in sostanza dei limiti dell'american dream e dei molti muri invisibili che ostacolano le fantasie su uguaglianza e opportunità. Questa è una storia di ricchezza e potere, e si interroga sulla natura dell'amore. Ma Anora parla anche di qualcosa di molto più straziante: di cosa significhi essere abituati a essere “guardati” in un modo, e poi sperimentare, all'improvviso, cosa si provi a essere effettivamente “visti”. Al punto da non riuscire più a distinguere la realtà dalla finzione.

Per avvicinarsi ad Anora bisogna tenere presente due cose. La prima è che questo film difficilmente esisterebbe senza Uncut Gems. Da anti-Soderbergh che è sempre stato, Baker per compiere il grande salto (che gli è valso la Palma d’Oro) decide ora di posizionarsi rispetto alla trasversale reinvenzione dell’indie operata dai fratelli Safdie con quel film, utilizzandone i moduli estetici senza tanti scrupoli. La seconda è che, al centro del proprio film, Baker ha messo quella che legittimamente si potrebbe definire come la quintessenza dell’ideologia statunitense contemporanea, e che è una medaglia a due facce. Una di esse è un principio di autodeterminazione individualista che spinge la strumentalità (“qualunque cosa al di fuori di me esiste solo come mezzo per i mie fini; tutto è scambio, e nulla prescinde dalla legge del do ut des”) fino alle sue estreme conseguenze, ovvero fino a “sfondare” l’utilitarismo: la “erotic dancer” Ani, presa com’è in questa eclisse dei mezzi in vista dei fini (conosce il figlio di un oligarca russo, lo sposa a Las Vegas praticamente prima di conoscerlo bene, per ovvio tornaconto) fino a ritenere normale di essere un oggetto a propria volta, finisce per perdere di vista quali siano i propri fini (la famiglia interviene, fa annullare tutto, lei scalpita un po’ ma alla fine abbozza). L’unico fine di Ani, insomma, risulta essere la fedeltà fine a se stessa verso se stessa e le proprie scelte. Per Ani conta solo il matrimonio (per quel po’ di giorni in cui c’è), ma conta come atto di fede fine a se stesso: non certo come legame verso un marito bamboccio e mezzo tossico.
L’altra faccia della medaglia di tutto ciò è che qualunque cosa sfugga a questo specifico principio di autodeterminazione fondato sullo scambio e alle sue conseguenze (che funzionano nei due sensi, e cioè anche per gli altri, e che dunque possono benissimo comprendere il farsi oggetto a propria volta) viene percepita come un’aggressione personale, e financo uno stupro.
Cosa fa dunque il furbissimo Baker? Tre cose. Prima cosa: spezza il film in due. Nella prima metà, l’ascesa euforica di Ani, il suo accesso al mondo della disponibilità economica illimitata. Nella seconda parte, la discesa disforica: arriva la famiglia potente e impone d’imperio (e in qualche modo anche violentemente) l’annullamento, ingenerando una valanga di peripezie più ridicole che drammatiche (il marito scappa a impasticcarsi, lo scagnozzo del padre lo lascia andare perché cade sul ghiaccio, Ani viene detenuta con la forza ma alla fine fa più male lei agli scagnozzi dei suoceri che viceversa, tutti partono in una ricerca del fuggiasco più grottesca che altro tra macchine rimosse in doppia fila, vomito nell’abitacolo e quant’altro). Ognuna di queste metà corrisponde alle due “facce della medaglia” elencate poco sopra. Seconda cosa: Baker prende il “cronotopo” dei Safdie, e cioè lo stato di eccitazione adrenalinica permanente connesso a questa perenne, generalizzata estremizzazione della strumentalità al di là di qualsiasi utilitarismo, e lo usa come stile comune a entrambe le metà di cui sopra, di natura di per sé in fin dei conti opposta, per sottolineare che sono, appunto, due componenti inseparabili di uno stesso fantasma immaginario (una stessa “ideologia” a stelle e strisce). Terza cosa: per la propria cinepresa sceglie la posizione di mosca sul muro; una mosca mobilissima e sempre dentro al vortice perpetuo in cui vivono i personaggi, ma tenendosi tutto sommato a distanza da loro. Il suo punto di vista, infatti, è idealmente quello di uno psicanalista che, accanto alla paziente (Ani), la guarda prima abitare la prima faccia di quella medaglia che è il suo fantasma immaginario, poi la seconda, perché sa già che cosa succederà alla fine, ovvero un crollo psicologico dovuto al non potere più identificarsi con quel fantasma immaginario, né con una faccia né con l’altra. Infatti, all’interno di quelle fisiologiche modulazioni e rallentamenti senza cui un ritmo così frenetico non potrebbe venire sostenuto, Baker inserisce con una certa frequenza momenti sintomatici dove, attraverso primi piani “strategici” sulla protagonista (spesso mentre è qualcun altro a parlare o agire), affiora l’impressione che qualcosa covi sotto la superficie, quella superficie assoluta che Ani accetta di essere e che invece potrebbe nascondere qualcosa di più complesso o contraddittorio.
Puntualmente, nella parte finale, il momento in cui la “paziente” viene messa davanti al proprio fantasma immaginario, con conseguente crollo, arriva. E qui Anora, al netto della furbizia di un progetto di cinema forte, originalmente obliquo e piuttosto ricco di intuizioni, fa intravedere qualche problematicità. Perché Ani si rende conto di non poter abitare né l’una né l’altra di queste due facce solo grazie a Igor, uno degli scagnozzi, personaggio decisivo che si stacca dal fondo indistinto di “valori tradizionali” (o “amore sincero”) e cinismo interessato dell’ambiente russo-armeno che abita (fondo indistinto che comunque, e Baker è di nuovo troppo furbo per fare altrimenti, informa in modo identico, al netto di qualche riarticolazione cosmetica, anche gli americani, di cui i russi qui sono una semplice immagine speculare) per coltivare invece un avvicinamento verso Ani formalmente correttissimo ma anche sinceramente benevolo e disinteressato. E Ani tutto può accettare, ma non questo. È dunque Igor a metterla davanti al suo tertium non datur, alla sua incapacità di relazionarsi o strumentalmente, o gridando allo stupro.
Personaggio in sé anche molto bello, il peso di Igor nel film getta una qualche ombra su Anora – o meglio, è il sintomo di un atteggiamento di fondo comunque problematico. Personaggio che cresce nella seconda parte in maniera assai accuratamente graduale (e spia dunque dell’eccessiva dipendenza del film verso i mezzucci drammaturgici con cui ci si riduce a far andare avanti la trama a forza di spintoni), Igor è il prezzo che il film deve pagare per poter far assumere allo spettatore la posizione dello psicanalista che tutto sa (attitudine già di per sé tutt’altro che scevra di problematicità) e che aspetta al varco la paziente (verso cui c’è accondiscendenza ben disposta, ma mai identificazione): appoggiarsi, affinché il redde rationem si dia, sull’oggettivazione della differenza sessuale, assurta a verità ultima su cui misurare l’amara presa di consapevolezza della protagonista. Se Igor può relazionarsi al proprio fantasma immaginario (Ani come oggetto del suo desiderio) come fantasma, se cioè può fare cose per lei (anche di un certo peso, tipo restituirle il preziosissimo anello nuziale rubatole dal collega) senza alcun interesse o strumentalità ma tenendosi a debita distanza, vale a dire se può fare qualcosa senza fondarsi su un principio di scambio, perché il destinatario dell’azione non è Ani ma ciò che Igor sa essere il suo oggetto del desiderio, e invece Ani no (incapace di relazionarsi a lui in maniere che non siano né la strumentalità né la violenza), liquidata dalla specularità di fatto ogni ipotesi di qualche differenza antropologica tra russi e americani, alla fine è semplicemente il fatto che Igor è un uomo e Ani no.
Il che, in uno Zeitgeist come quello contemporaneo, ha anche (più di) qualche interesse anche solo per il suo essere in controtendenza – ma è difficile negare a un presupposto del genere ogni problematicità. A meno che non sia al film in sé ma a un movimento contemporaneo più generale (è stato il caso, in effetti, del Babygirl di Alina Reijn visto a Venezia 2024), reflusso fisiologico dell’ondata mainstream di #metoo e affini, che vada ascritto il riferimento alla Casa di bambola ibseniana, prototipo immortale della donna che sembra emanciparsi individualmente prima di scoprirsi ancora tutta interna al dominio patriarcale, nel momento in cui Ani vede il proprio nome storpiarsi in Anora per incorporazione della Nora norvegese di quasi centocinquant’anni fa.
