TRAMA
USA, anni 80: Prior confessa al suo compagno Louis di aver contratto l’AIDS. Louis non regge la nuova situazione e lo abbandona, con infiniti sensi di colpa. Joe ,giovane avvocato mormone con tendenze omosessuali, lavora presso il Dipartimento di Giustizia grazie alla raccomandazione del faccendiere Roy Cohn, gay non dichiarato al quale viene comunicato di essere malato di AIDS. La moglie di Joe, Harper, trascurata e insoddisfatta, si imbottisce di barbiturici da mesi…
RECENSIONI
Il bianco che ha scritto l’inno nazionale ha messo la parola “libero” su una nota così alta perché nessuno ci arrivasse. Lo ha fatto di proposito. Non c’è niente qui che somigli anche vagamente alla libertà. Vieni con me in ospedale, stanza 1013, e ti mostrerò l’America: un malato terminale pazzo.
Miniserie televisiva della HBO subissata di premi (cinque Golden Globe – due agli interpreti Pacino e Streep -), incensata dalla critica (il New York Times: "Angels in America è il più importante adattamento di un lavoro teatrale dai tempi di Un tram chiamato desiderio di Kazan”), amata dal pubblico, tratta dall’omonimo dittico teatrale di Tony Kushner, opera fiume che destò scandalo e che gli valse Pulitzer e Tony Award; quattordici mesi di riprese, un anno di montaggio, tre anni complessivi di lavoro sotto la direzione di Mike Nichols: non sono pochi gli elementi che ci inducono a occuparci di questa Gay Fantasia on National Themes, come recita il sottotitolo della pièce, scommessa per il piccolo schermo divenuta in breve tempo vero e proprio oggetto di culto, azzardo da 60 milioni di dollari per 6 ore di immagini in alta definizione e di dialoghi fittissimi. Siamo nell’epoca di Reagan e dell’AIDS, si vivono anni bui. Gli angeli sono sempre venuti in soccorso della Terra in tempi di crisi ma adesso sembrano disorientati anch’essi: Dio non c’è più, è partito da decenni (per la precisione dal 1906, l’anno del terremoto a San Francisco), ha abbandonato il Paradiso a se stesso. Quanto più gli umani progrediscono, evolvono e migrano, quanto più essi si muovono e si attivano, tanto più il Paradiso trema: Dio, scosso da tali sommovimenti, ha tolto le tende, non farà più ritorno. Terra e Paradiso sono vicini al caos e gli angeli decidono di intervenire: è ora che gli umani si votino all’immobilismo, è ora di interrompere questa smania, l’uomo deve stare un po’ fermo perché solo così Dio farà ritorno a casa. Ma forse colui che è stato individuato come profeta e che deve indottrinare la Terra su questa necessità conservatrice (se non reazionaria) non è disposto ad assumersene il compito; forse è inevitabile che gli uomini vadano avanti poiché il movimento è la modernità, il movimento è ciò che anche l’uomo è; forse Dio, tutto sommato, non farà ritorno comunque e, se dovesse farlo, se osasse mostrare di nuovo il suo volto nel giardino celeste per vedere quanta distruzione, quanta morte e quanto dolore ha causato la sua fuga, sarà il caso di citarlo in giudizio, fargli causa per abbandono, fargliela pagare. Angels in America si divide in due parti: la prima (Millennium approaches) è incentrata sul dramma del crollo del vecchio mondo; in essa si insiste sul tema della disgregazione della coppia, della malattia incurabile, della solitudine e della violazione delle leggi (Fuck legality dice Roy , frase in cui si rispecchia il It's law not justice che pronuncia Joe verso la fine, tagliandosi fuori dalla vita di Louis e, quale esplicita scelta di campo, anche dallo speranzoso finale). La seconda parte (Perestroika) presenta la nascita del nuovo mondo e le speranze legate ad essa: i personaggi si incrociano secondo dinamiche impreviste, si creano nuove comunità (si pensi alla scena finale che unisce Hanna, Louis, Prior e Belize), anche la morte di un personaggio negativo come Roy non è segnata dal marchio della solitudine (la preghiera del correligionario Louis al suo capezzale su richiesta di Belize), Prior continua a vivere e guarda avanti nonostante tutto.
Angels in America (“una Divina Commedia per un’età laica e tormentata”: così il Sunday Times), un dramma che Robert Altman fu più volte tentato di portare sul grande schermo mantiene sostanzialmente, nella rilettura nicholsiana, la sua natura teatrale, basandosi su lunghe scene di dialogo a due e alternando situazioni drammatiche e realistiche (a volte nei consapevoli toni di una soap-opera, altre in quelli tragici di un lavoro shakespeariano) a divagazioni fantastiche, visionarie e metafisiche: è proprio l’inconsueta mistura fra i due registri a segnare la peculiarità di tono dell’intera opera. Nichols, sottolinea la scelta antinaturalista di Kushner, attribuendo, come avviene negli allestamenti teatrali dell'opera, ad alcuni attori più ruoli e riscatta con decisione l’origine dello script facendo largo uso di effetti speciali e imprimendo alle immagini una spettacolarità che ben poco ha a che vedere con le medie produzioni televisive e molto più con quelle cinematografiche (il film negli USA ha avuto anche una selezionata visibilità nelle sale). Se il fondo delle vicende è indicibilmente tragico (l’ombra della prossima morte di Prior e di Roy si allunga sugli altri personaggi, ognuno a suo modo tormentato) la scelta di una scrittura brillante, con punte di imprevista demenzialità, conduce con scioltezza il lavoro su un terreno felicemente inetichettabile.
In avvio la rappresentazione del flagello dell’AIDS (che all’epoca era percepito soprattutto come malattia punitiva, che andava a colpire esclusivamente certe categorie di persone – drogati e omosessuali in primis -) e delle sue conseguenze, si risolve in un leggero teatrino di cose già viste e soprattutto già lette, in cui alla curiosità per alcuni risvolti cronachistici (la vera vicenda dell’avvocato corrotto Roy Cohn – un monumentale Al Pacino – che, durante la caccia alle streghe maccartista, portò sulla sedia elettrica Ethel Rosenberg – il suo fantasma è interpretato da Meryl Streep -) si scontra con variazioni fantasmagoriche (Prior e Harper che si incontrano nel sogno del primo, ispirato a La bella e la bestia di Cocteau) che pur nel loro cosciente eccesso hanno una scrittura non sempre incisiva e un’idea scenografica che, spiritosa quanto si vuole, sa, in certi casi, di pacchiano e basta: è la parte meno riuscita dell’opera, quella in cui si costruiscono, con macchinosa dialettica, i drammi esistenziali dei vari protagonisti e in cui restano impressi nella mente soprattutto l’esemplare entrata in scena di Pacino (il suo carattere viene dipinto con efficacia fin dalle prime battute – il dialogo con il suo protetto Joe – e nello strepitoso duetto col medico che gli annuncia la malattia mortale, una delle scene chiave del teatro americano contemporaneo tutto). E’ con l’evolversi delle vicende e soprattutto con il loro successivo intrecciarsi che il film dà il suo meglio, lasciando agli inserti visionari il compito di rendersi didascalie in cui divenga leggibile il disegno sovrumano immanente al narrato e trovando le situazioni e i fatti vissuti dai protagonisti una resa drammaturgica di ragguardevole spessore. Il fulcro della vicenda è Prior, colui che gli angeli scelgono come oracolo, un ruolo che questi rifiuta, vedendo nella capacità di vaticinare il vero virus che infetta il profeta e che lo uccide: al posto di quel terribile dono ambirebbe, invece, a ottenere un altro po’ di vita (Io voglio più vita ripeterà in maniera toccante al momento del gran rifuto).
Nessun dubbio sull’arditezza del progetto: le piste parallele che si aprono (in cui si mescolano una sorta di incombente Armageddon, le previsioni di Nostradamus, l’ossessione dei segni e delle cabale), l’audacità delle scene e dei dialoghi, soprattutto la scelta di riportare sullo schermo in tutta la sua impetuosità l’incontenibile loquacità dei caratteri, fa onore a Nichols che nella complessità dei temi (omosessualità – soprattutto l’accettazione di una coscienza collettiva della stessa -; identità & comunità –wasp, ebree, mormone, omosessuali, nere – e rispettivi, contrapposti barriere & pregiudizi; malattia & morte; indifferenza & cinismo del Potere; decadenza di un’epoca) e nella confusione dei livelli, pur non trovando sempre la misura - a volte passando il segno della sobrietà e soprattutto non risolvendo sempre in modo originale le parti legate alle apparizioni e alle visioni oniriche (a volte piattamente codificate sul piano visivo, se non scontate) -, riesce comunque a condurre degnamente l’escalation dello strazio e della speranza in un crescendo rappresentativo invero convincente. Supportato da attori tutti da applauso, Angels in America rimane dramma sfaccettato e strabordante che narra con indubbia sfrontatezza, attraverso uno spettro frammentato ad arte, di un’epoca ipocrita che chiuse gli occhi di fronte a un mostro maculato di nome AIDS, che, sorda per troppa colpa (più spesso) e per troppa innocenza (di rado) non avvertiva le trombe dell’Apocalisse a venire; un film che riesce a portare avanti, con il linguaggio peculiare delle immagini filmate, non solo le denunce (dirette in particolare alla politica di chiusura nei confronti delle comunità omosessuali propugnata dall’amministrazione Reagan prima e Bush poi [1]) ma anche gli interrogativi dell’opera teatrale: quelli sull’arte del vivere insieme, in pubblico e in privato. Nelle stanze del Potere e nelle camere da letto.