TRAMA
In un lussuoso albergo marocchino s’incontrano un ladro di gioielli inglese e una cantante francese. Entrambi affetti da intermittenti amnesie, cercheranno insieme una cura…
RECENSIONI
Oltre il mare e la nebbia del passato, in un deserto punteggiato di parole e sguardi, un moresco castello dei destini incrociati e sovrapposti accoglie le figur(in)e di un gioco che è un’oasi di dolcissima follia, un bagno lustrale fatto di ricordo e immaginazione, speranza e ricostruzione. Più che un giallorosa spruzzato di esotismo, una fiaba ricca di oggetti magici (i gioielli, souvenir d’amore e cambiali da onorare), immersa in un orizzonte in(de)finito e sfuggente, stilizzata come un dramma brechtiano, fatua come una suite di numeri da cabaret. La (solita) trama di passioni à la Harmony è un flebile pretesto per una messinscena che, se si perde talvolta in simmetrie troppo insistite per non suonare pedanti, esalta con genuino slancio la gioia rococò della fantasmagoria, creando un piccolo mondo neoclassico dallo charme leziosamente e consapevolmente kitsch. Malgrado il catalogo di ricordi perduti e oniriche corrispondenze sfogliato nel lambiccato sentiero narrativo, AND NOW… LADIES AND GENTLEMEN lascia da parte le indagini (meta)fisiche e sfuma con sorniona ironia (quasi) ogni addensamento didascalico, concentrandosi piuttosto sul ruolo assegnato alla dis/simulazione teatrale (le mille facce di Valentin, i contrappunti musicali, gli inganni degli/negli specchi) in quella pennichella rischiarata dall’amore che ci ostiniamo a chiamare vita. Circolare e narcisistico, tenero e sbruffone, incorreggibilmente affabulatorio (a partire dal titolo), il nuovo Lelouch è un labirintico affresco costituito da limpide miniature dai toni ora brillanti ora slavati, un vecchio gioco di prestigio riproposto con manierata grazia, un opéra-comique (truccato da grand-opéra) che funziona decisamente meglio quando ai sentenziosi dialoghi (una serie di triti aforismi) si sostituiscono le rapsodie di occhiate multiple e soavi melodie di repertorio (affidate alla protagonista, la deliziosa Patricia Kaas): dopo un prologo sapientemente frammentato e a suo modo spiazzante, la parte centrale risulta troppo compressa (in particolare, il ritratto dell’inafferrabile triangolo Sam/Soleil/David, forse sforbiciato al montaggio, appare alquanto sfocato) e il finale è eccessivamente dolciastro (ma non privo di abilità nell’interminabile ridefinizione visionaria). Il doppiaggio compromette inevitabilmente (?) la verve babelica del tutto, ma gli attori rifulgono d’immutato splendore: accanto all’inevitabile Martines (meno insoffribile che in altre occasioni, forse perché alle prese con una parte secondaria) si ammirano, fra gli altri, un Irons d’imbalsamata e balsamica ironia e una Cardinale di compunta ambiguità.