TRAMA
Una donna è sospettata dell’omicidio di suo marito, il loro figlio affronta un dilemma morale come unico testimone.
Palma d’oro al Festival di Cannes 2023
RECENSIONI
ANATOMIA DELL'AMBIGUITÀ
Uno chalet di montagna, una coppia e il loro figlio: Sandra è una scrittrice famosa, Samuel si divide tra insegnamento e scrittura, il dodicenne Daniel è ipovedente dopo un incidente che gli ha lesionato il nervo ottico. Il corpo di Samuel (da vivo lo conosceremo solo attraverso i racconti) viene ritrovato sulla neve, davanti casa: è precipitato dalla finestra della soffitta. La caduta fisica è quella di un uomo, quella metaforica è di una coppia conflittuale giunta alla resa dei conti: a essere messo sotto processo sarà dunque il menage di Samuel e Sandra; ce lo dicono le foto “vere” che ritraggono i due coniugi dall’infanzia all'attualità, come si susseguono nei titoli iniziali.
Lost in translation
Triet in supremo gioco di ambiguità: la parola innanzitutto, ché Sandra (tedesca) si esprime in inglese (come la Marlene Dietrich di Testimone d’accusa), ma deve deporre in francese (non ho visto l’edizione italiana, auguri) e dietro questi passaggi da una lingua all’altra c’è un lost in translation implicito, una continua interpretazione e rielaborazione di codici comunicativi. Si prenda il caso dell’intervista iniziale a cui la donna è sottoposta e che precede di pochissimo la tragedia: comincia come discorso professionale, prende una piega personale, diventa (forse) lancio di messaggi subliminalmente sessuali.
E la freddezza di Sandra è un dato apparente? Caratteriale? Culturale? Vado a riguardarmi Un grido nella notte di Fred Schepisi.
Il figlio
Ambiguità, si diceva: il testimone più importante non è oculare, perché Daniel, il figlio della coppia, non vede quasi nulla, depone sulla base di un percepire la realtà che va anch’esso interpretato, che determina, come per la lingua, una perdita di dati, un caso alternativo di lost in (sensorial) translation. Un testimone che è anche parte in causa, che non è certo neutrale, un bambino - intelligente, sensibile - che, naturalmente, desidera che la madre sia innocente. Un testimone che rende una deposizione controversa, affermando di aver ascoltato una conversazione dall’esterno della casa e che poi, di fronte alla fragilità dell’assunto, corregge il tiro, ponendo la sua posizione all’interno dell’abitazione.
Dubbi che si rinnovano in sede processuale: e se in aula Daniel adeguasse le sue parole alla versione dei fatti che vorrebbe conforme al suo volere (l'innocenza della madre)? Quanto è convinto di quello che dice? Quanto vorrebbe fosse vero? Quanto la sua testimonianza è frutto di un ricordo mistificato dalla sua menomazione? Quanto ritiene essere quella la versione più logica dell’accaduto sulla base del suo personalissimo incidente probatorio (quello sul cane)? Quanto quella deposizione è il frutto di una presa di coscienza dell’entità del dramma familiare come appresa nel processo (momento potentissimo quello in cui ascoltiamo la registrazione del litigio tra i genitori guardando la sua reazione)? Si aggiunga il racconto del dialogo in auto col padre che sottintenderebbe un intento autolesivo di Samuel: quanto questo ricordo è fedele alla realtà dei fatti? Quanto il bimbo lo sovrainterpreta, lo rielabora o lo inventa in favore di una tesi che vuole venga avallata? Quanto, in definitiva, è cosciente Daniel di essere il vero giudice del caso?
Doppiaggio
Ambiguità, si diceva. Anche nel dispositivo del film, perché quelle che lo spettatore vive come flashback sono in realtà ricostruzioni soggettive/collettive: quella del litigio è una traccia audio presentata come prova in tribunale a cui il film associa immagini posticce (mentali, potrebbero essere del figlio, come di qualsiasi altra persona stia ascoltando la registrazione), quelli della conversazione padre-figlio in auto sono ricordi uditivi di Daniel che si traducono in una figurazione plausibile, non a caso “doppiata” dal bambino (Milo Machado Graner, straordinario fino all’inquietante).
Autofiction
Ambiguità, si diceva. Torniamo alla registrazione del litigio. Scopriamo che Samuel registrava le conversazioni con la moglie per un progetto letterario: non si può escludere dunque che quanto ascoltiamo sia una disputa alterata nei toni dallo stesso Samuel per ottenere dalla moglie determinate reazioni da riutilizzare in sede romanzesca. Che insomma questa discussione cassavetessiana sia non solo una realtà già pronta per la finzione, ma che fosse già contaminata da essa. E comunque che il confine tra le due dimensioni sia labilissimo lo sottintende anche la scelta della Triet sceneggiatrice di assegnare i nomi propri degli attori Sandra Hüller e Samuel Theis ai personaggi e di mostrarne le vere foto nei titoli di testa.
La difesa
L’avvocato è anche un amico, forse è innamorato di Sandra (se si rilegge su questa base, la sua frase «non è questione di verità» diventa ancora più significativa) e la sua intima opinione sul caso è (giustamente) impenetrabile dopo che ha abbracciato, per l’ufficio che ricopre, quella del suicidio come versione più utile a far pesare gli esiti del processo dalla parte della sua assistita. Questa impenetrabilità però si arricchisce anche di quel non detto che concerne il rapporto privato con la donna che difende.
Ambiguità, again.
Suicidio?
L’ipotesi del suicidio prende progressivamente piede, si fa via via più convincente:
- un ragionevole senso di colpa di Samuel legato alle circostanze dell’incidente che ha fatto perdere la vista al figlio;
- un precedente tentativo di togliersi la vita;
- le ambizioni letterarie frustrate (la registrazione dei dialoghi con la moglie dice di un’ispirazione al lumicino, cosa confermata dall’assenza di una qualsiasi bozza romanzesca);
- la beffa dell’idea avuta per un intreccio che, ceduta alla moglie, decreta il successo del romanzo scritto dalla donna (e il risentimento lo si sente: nella musica sparata a volume violento per sabotare l’intervista iniziale) [1];
- le parole della conversazione in auto come riportate dal figlio (se si decide di leggerle in quella direzione).
Al suicidio si può credere.
Di più: si può arrivare persino a pensare (esageriamo, ma tutto è lecito) che il marito si sia suicidato in circostanze volutamente indecifrabili per far incriminare la moglie.
Tre persone nello chalet (per tacer del cane)
Qual è il ruolo del cane in questa tragedia? L’animale non ce lo può dire neanche mentendo, ma c’è una sequenza apparentemente bislacca in cui si segue passo passo l’animale dall’esterno all’interno della casa: cosa ci sta dicendo Triet attraverso quel pedinamento? Perché lo colloca proprio in quel punto del film, poco dopo la caduta? Perché (me lo fa notare Giulio Sangiorgio) il cane e Daniel hanno gli stessi occhi, lo stesso sguardo opaco e liquido? È Snoop il prolungamento visivo di Daniel? Cosa ha visto Daniel attraverso gli occhi di Snoop?
Il ruolo del fuori campo, di ciò che non si vede (o non si riesce a vedere), in questo film è decisivo, del resto.
Triet
Triet, per dissezionare questa coppia guarda tanto all’intimismo del family play o del dramma bergmaniano, quanto alla violenza verbale di certo procedurale hollywoodiano, anche se il titolo, mimando Anatomia di un omicidio di Preminger, mette l’accento su quest’ultimo, ribadendolo nella stessa anomala durata e nello stesso ambiguo spettro: un’altra coppia - con un cane - è sotto processo mediatico (e anche se lì l’imputato a processo è il marito, anche in quel caso è la moglie l’oggetto dello sguardo giudicante e moralizzatore).
Fa di più:
- inventa un baricentro mobile della narrazione (alternandolo soprattutto tra madre e figlio) che determina un riflesso oscillare dell’opinione spettatoriale poiché, esponendo il progredire del convincimento dei suoi protagonisti rispetto al caso, riformula di continuo i presupposti sui quali fondare ragionamenti e ipotesi;
- usa le esasperazioni analitiche dell’indagine e del processo (il bicchiere di vino, per esempio) per adombrare quelle che, nel menage, finiscono per ingigantire le inezie, rendendole questioni cruciali;
- fa esercizio di manipolazione del pubblico costruendo, nel generale realismo, una figura di pubblico ministero aguzzino e sgradevole (l’antidoto alla mitezza del difensore), un inquisitore volontariamente caricaturale e “di genere” che ci fa parteggiare per Sandra per reazione e aprioristicamente;
- spingendo lo spettatore ad assumere posizione rispetto a quanto la storia racconta, sottintende che lo stesso vale per i personaggi: essi devono neutralizzare la naturale incertezza degli eventi facendo una scelta di campo che li aiuti ad andare avanti; questa della scelta è una logica che si impone anche nell’esercizio della Giustizia che, al di là della dissezione analitica che può fare dei fatti, nel conflitto di interpretazioni arriva comunque a preferire la versione più credibile, che non coincide necessariamente con la verità. La Dike mitologica, del resto, è bendata (Triet: «il tribunale è il luogo dove la nostra storia non ci appartiene più, dove è giudicata da altri, che devono ricostruirla con elementi sparsi, ambigui. Diventa necessariamente finzione, ed è proprio quello che mi interessa»).
Grande scrittura (Triet e Arthur Harari) che investe temi contemporanei - senza sbandierarli, ma implicandoli con una metodicità mimetizzata che ha del prodigioso -, superba gestione della messa in scena (taglio paratelevisivo, freddo, piatto, anticalligrafico, nessuna musica extradiegetica), attori perfetti (Sandra Hüller merita ogni premio).
[1] La canzone è Pimp di 50 Cent in una cover strumentale, scelta molto significativa perché alimenta ulteriori teorie su dettagli che potrebbero essere casuali (Triet: «Anche se non sentiamo mai il testo, gli avvocati discuteranno in aula della canzone originale e se le liriche del brano siano misogine»).
Tra le molte barzellette che Slavoj Zizek suole raccontare, ce n’è una che ricorre in modo particolarmente frequente:
Esterno notte. Un lampione acceso. Un tizio sta frugando nel fascio di luce che viene dal lampione. Gli si avvicina un altro tizio. “Hai perso qualcosa?” “Sì le chiavi di casa” “E le hai perse in questa strada?” “No le ho perse in un vicolo completamente privo di illuminazione un paio di isolati più in là, ma qui si vede meglio, c’è più luce”.
Questa resistibile freddura descrive alla perfezione l’operazione a monte di Anatomie d’une chute di Justine Triet. Una scrittrice di successo che capiamo subito essere anaffettiva e manipolatrice, deve fronteggiare, una volta rinvenuto il cadavere del marito (scrittore che non riesce a raggiungere il successo, e nemmeno a manipolare la moglie) appena fuori dal loro chalet vicino a Grenoble, un’accusa di omicidio. Segue processo, gogna mediatica e quant’altro.
Come ormai hanno scritto tutti già all’indomani della presentazione a Cannes, non ci viene mai rivelato se sia lei l’assassina o meno. Varie cose però vengono alluse in maniera pressoché inequivocabile. Un lungo flashback sul loro burrascoso rapporto di coppia materializza i sospetti di qualsiasi spettatore che non sia totalmente sprovvisto di senno: il livello di anaffettività della protagonista è tale da lasciarsi dietro la soglia di “stronza” di parecchie lunghezze. Altri elementi, pur non affermando niente di definitivo, rendono pressoché impossibile dubitare che il marito, effettivamente, si sia suicidato. Quanto della sua decisione fosse dovuto al comportamento di lei si potrà anche vagamente intuire, ma non è comunque, naturalmente, qualcosa che si possa sanzionare dal punto di vista penale.
Ed è per questo che, per quanto il film sia brillante a livello di scrittura, recitazione, regia, tensione e quant’altro, permane un sospetto di furbizia. Come il tizio del lampione nella barzelletta, il film si concentra sulla questione legale, ma la questione legale non è l’essenziale della situazione. L’essenziale della situazione è invece il ruolo involontariamente giocato da lei nel suicidio di lui. E che sia l’essenziale, il film non ce lo dice mai chiaramente, ma lo allude indirettamente in molte maniere, in modo tale che non possiamo non pensarci. Ma se l’essenziale è questo, perché il film si concentra su tutt’altro, toccando la questione invece solo il tanto che basta per poterla nascondere sotto il tappeto? Perché, in altre parole, Triet fa un film giudiziario su qualcosa che non ha nulla a che vedere con la perseguibilità penale?
In buona sostanza, perché scambia in modo interessato un tabù per un mistero. Nell’incapacità di un individuo (uomo o donna: poco importa) di pensarsi come parte di una coppia, e più in generale di pensarsi in altri modi che come un singolo, non c’è alcun mistero. Ma in un’epoca come quella odierna, in cui tanto dibattito, soprattutto anglosassone, sul ruolo della donna in rapida mutazione nella società e nella coppia fatica a staccarsi da un’idea di emancipazione intesa come emancipazione esclusivamente individuale, ecco, in un’epoca come questa, andare a toccare le magagne del pensarsi uno quando si è in due, è un autentico tabù, anche in assenza di alcunché di misterioso. Un peccato di leso individualismo. Meglio dunque sfiorare la cosa senza affrontarla davvero, e costruire un’elaborata architettura giudiziaria a mo’ di alibi. Un’architettura che per stare in piedi è costretta, per così dire, a una misura “omeopatica”: a inglobare cioè un corpo estraneo come il melodramma. Non c’è gimmick più melodrammatico del bambino elevato a deus ex machina: è questo che succede in Anatomie d’une chute – anche perché il bambino è, in fondo, la quadratura del cerchio tra la coppia pensata come Uno e la coppia pensata come Due.
Perché, dunque, travestire da mistero quello che è un tabù tutto contemporaneo: quello dei danni collaterali dell’individualismo benintenzionato? La risposta deve partire da lontano. L’industria francese ha cominciato già da (almeno) una quindicina d’anni a corteggiare gli esiti migliori della serialità televisiva americana. Da almeno quindici anni in qua, in concorso c’è quasi tutti gli anni un film francese di più di due ore che prova a sintetizzare il cinema d’autore all’europea con la serialità americana più illuminata (da Racconto di Natale a Il profeta a 120 battiti al minuto a molti altri). Nel 2023, questo film era Anatomie d’une chute. Naturalmente, importare la serialità americana non può essere solo questione di perizia di scrittura: ad essere importata deve essere, in qualche misura, anche una certa visione del mondo. Nel modellarsi su quella matrice, dunque, Triet ha dovuto fare i conti con precise coordinate ideologiche, non da ultimo inerenti ai rapporti tra i sessi come anche loro inclusi nella universale lotta degli individui per la manipolazione reciproca pro domo propria (chiamiamola pure ideologia “woke”) celebrata da una serie Netflix e l’altra pure. Di ciò, tuttavia, Triet ha tenuto conto rimanendo lucidamente consapevole dei loro limiti.
In altre parole, Triet è una regista troppo intelligente per non sapere che la rozza visione anglosassone per cui l’emancipazione coincide semplicemente con la libertà di manovra individuale ha dei limiti, e belli grossi. Quindi rimane in temerario equilibrio, suggerendo che i danni collaterali del pensarsi uno quando si è in due è qualcosa alla cui esistenza si fa allusione, ma senza che questa incapacità del singolo di pensarsi in due venga minimamente affrontata. L’allusione, tenuta ai margini del dramma processuale in cui di fatto sceglie di esaurirsi il film, funziona da rimozione, o tuttalpiù da esorcismo.
Oltre che troppo intelligente per non conoscere i limiti di ciò che ha provato con successo ad importare (fino appunto ad aggiudicarsi la Palma), Triet è anche una regista colta, ed ecco dunque che, per rileggere la serialità televisiva contemporanea toccando al contempo i limiti della sua ideologia, utilizza l’Otto Preminger di Anatomy of Murder, altro celebre dramma processuale in cui il colpevole rimaneva in sospeso.
Ma attenzione. In Preminger, il mistero viene provato per assurdo, nel momento stesso in cui l’essenza si rivela essere nulla più che la contingenza – o, in altre parole, la retorica. Questo significa che prima Preminger sposa l’ottica per cui tutto è retorica, a cominciare dal suo stile registico mobile e ampolloso; successivamente, però, Preminger mostra i limiti della retorica. E se la retorica ha dei limiti, allora non è vero che tutto è retorica, perché qualcosa che gli è al di là dovrà pur esserci. Ed è qui che entra in gioco il mistero.
Non può, però, dirsi mistero la contraddizione di base del personaggio della Triet: quello di essere capace di pensarsi solo come singolo anche quando in due. Non lo può perché, anziché fare emergere e “processare” la propria retorica come in Preminger, il partito preso scelto da Triet (che semmai fa impersonare la retorica dall’antagonista: l’avvocato dell’accusa) è quello di una estrema oggettività: regia esterna ai propri personaggi, niente sentimenti, ritmo competente, pura funzionalità. Il classico insomma – o quantomeno ciò che viene ritenuto classico in un’accezione comodamente accademica. Ma se così stanno le cose, l’incapacità di pensarsi in due del singolo che non ha alcuna voglia di derogare dal proprio autoriferimento non è un mistero, per la semplice ragione che a scavare nel personaggio non ci si è nemmeno provato, vista la regia totalmente esterna di cui sopra. Non è un mistero, ma un semplice tabù: qualcosa che si sceglie (per un falso partito preso di oggettività come semplice rimozione del soggettivo, come in un film non dissimile quale il remake di Beguiled di Sofia Coppola) di non approfondire. Sostanzialmente per convenienza, perché è più comodo così.