TRAMA
Ana e Tomas si conoscono (?), si amano (?), si lasciano.
RECENSIONI
Da una conversazione a tema superomistico a un attacco di panico al sesso, eliso dalla censura del ricordo: Ana e Toma si incontrano e si amano nella facoltà di lettere; hanno, dunque, davanti a sé, un ampio ventaglio di presenti e futuri tormenti, che spazza un angolo di 180 gradi dai sentimenti, alla sensibilità, ai soldi. Gli altri 180 sono un luogo nascosto, omesso, faticoso, che giace nell’ombra del tempo passato che tuttavia si allunga fino al pavimento del presente, rincorrendoci perfino alla luce del giorno; in una parola: subconscio, il luogo del non detto, anche e soprattutto a se stessi. Si guardano spesso negli occhi, Ana e Toma, come quando ci si cerca in uno specchio, fino a disconoscersi.
Con un taglio dichiaratamente resnaisiano Ana, come Hiroshima, è luogo dell’amore sognato, evocato e inattuabile, con quel mon amour estero e esterno, che infiocca la tragedia con il vezzo del sentimento; sì, perché l’amore ai tempi della collera, odierna e senza tempo, può essere anche vezzo tragico, tentativo di fuga dal reale, sublime illusione, momento di buffezza che preludia al sesso veemente, veemenza dello scontro prima del perdono, infine, fine: “non ti amo più”, “non mi hai mai amata”. La verità (vi prego) sull’amore è inesplicabile perché ciascuno ne ha una propria versione, per questo è necessario esporla, esporle tutte, e il tentativo finisce realmente in preghiera: nella spinta a verbalizzare, a non tenersi tutto dentro, a confidarsi con qualcuno, fra prete, psicologo e psichiatra vince quello gratis. Ma Toma ha una devozione logica, crede col cuore, diffida con la mente, asseconda famiglia e tradizioni, si ribella quando deve e quanto può; Ana è più devota e più segreta, non dà ascolto, non vuol parlare, soffre. Nella Romania un po’ odierna, un po’ decontestualizzata, europea e post-comunista, in cui si insegna Bréton ma si pone l’accento su Dimov e Tepeneag che “non potevano permettersi il lusso dell’irrazionalità” e abbracciano il “sogno cosciente”, la letteratura lucida; tuttavia si attendono reliquie di santi per lunghe ore, si studia Nietzsche, si combatte con un asfissiante pragmatismo famigliare e con la sua schietta brutalità, si immagina di fare gli insegnanti, ultima, se non prima, spiaggia del letterato contemporaneo in un mondo in cui -il prete ci informa- “è più difficile trovare moglie che scrivere una tesi di dottorato” e viene in mente che, almeno in Italia nemmeno quest’ultimo garantisce un posto di lavoro.
Arriverà, per entrambi i nostri innamorati-amanti, il momento dell’analisi. E con essa, per Ana, la fiducia e la forza nelle proprie capacità, il superamento della propria dipendenza. Sì, perché l’amore è spesso il nome che si dà ad altre cose, in primis al bisogno. L’analisi libera Ana dal bisogno –l’essenziale locandina definisce bene la natura del rapporto: nell’intimità di un letto, lui sostiene lei, la sorregge, sentimentalmente e virilmente-, ma rende Toma un bisognoso, perché anche chi tiene le redini è aggrappato a qualcosa, si nutre dell’altrui necessità. Così, poiché noi, a differenza dei poeti della Repubblica Popolare Rumena, possiamo permetterci il lusso dell’irrazionale e di razionalizzarlo, è la volta di Toma di indagare se stesso, di rivolgersi all’analista -che è realmente un lusso e spesso non fatturato, come vagamente una scena suggerisce-. E il film è questo momento, questa fase, frammentata nel racconto, intima nello svolgimento, necessariamente aperta nel finale. Freudianamente si procede per associazioni e proprio in questa direzione agisce il montaggio, costruendo una psicologia dell’amore narrata per immagini, in quella Marienbad che è il vissuto sentimentale. Ma al posto di interni sontuosi, di infiniti corridoi, di sguardi congelati, di piume e chiffon, c’è la costipazione degli spazi comuni, delle lunghe code, della poltrona di un’opera lirica, del letto condiviso -incubo totale- con il suocero, dei pigiami a righe di lui e dei vestiti a fiori di lei; e ci sono gli occhi persi nel vuoto o nelle lacrime di Ana, questo palindromo che va da sé a sé, senza comprendersi o farsi comprendere. Sembra di non riconoscerla più, poi, rivedendola con i lunghi capelli sparsi sul letto, nei ricordi che irrompono nel suo manageriale presente con taglio corto e tintura bionda, donna in carriera come la Marie Antoniette di Mon Roi che ripercorreva mentalmente la sua storia d’amore durante una riabilitazione, mentre, nella parabola opposta, Toma i capelli li perde, come il Ryan Gosling di Blue Valentine.
Ma l’emergenza in Ana mon amour non è melodrammatica, ma prettamente psicologica e non nel senso metatestuale di un La vita in un attimo, in cui la terapia “liberava” il film stesso e ne costituiva il congegno, bensì in senso realmente personale, individuale, non individualistico: non solo il regista Călin Peter Netzer si conferma capace di indagare e tratteggiare intimamente figure complesse di donna (e non solo) nella loro interazione sociale e famigliare (come già con Maria nel 2003 e con Il caso Kerenes, Orso D’Oro nel 2013), ma pone l’accento sul conoscersi per essere liberi, sull’indipendenza del singolo nella società, una società in cui –lo ha affermato- in molti vivono in un eterno conflitto senza uscita, aggrappati a relazioni sorrette da vicendevole debolezza. Non sorprende, allora, che in più momenti la regia si approcci stilisticamente a un Von Trier, a quella sua "dogmatica" camera a mano, allo zoom che avvicina e allontana i propri personaggi, cercandoli e abbandonandoli a loro stessi. Ma questo girato fortemente connotativo tende a formalizzare il discorso, distogliendo da esso, perfino compromettendo l’empatia; così i dettagli più intimi, dal sesso, alle coccole, alle deiezioni, all’accudimento di un neonato, rischiano di calcare la mano sul realismo in modo tanto diretto quanto programmatico, tanto naturale quanto mesto, tanto osato quanto risaputo come le sigarette dopo il sesso, e di lasciare lo spettatore all’esterno: in pratica finisce per mancare l’emozione diretta, la partecipazione a eventi che ci vedono estranei, quando invece proprio nella loro frugalità dovremmo riconoscerci. Nelle ellissi temporali interi passaggi si autorisolvono e nuovi conflitti emergono, in perfetta linea col flusso di associazioni terapeutiche, che è ciò a cui stiamo assistendo. Ma se non possiamo essere mai davvero Ana e mai davvero Toma, pur essendo o essendo stati probabilmente entrambi nella nostra vita, il rischio è che ci tocchi essere l’analista e che questo intacchi il nostro privilegio di essere, principalmente, spettatori. Il flusso troppo controllato di Netzer ci regalerebbe allora delle emozioni più dirette dando più spazio al bello che non al simbolico, lasciando fluire i codici in trasparenza, coinvolgendo più gli occhi e meno la mente, pur in una materia così mentale, che non vuol dire per forza cerebrale. Essendo, in pratica, più squisitamente cinematografico. Di questo respiro e di questa libertà si avverte un po' la mancanza.