Drammatico, Recensione

AMOUR

Titolo OriginaleAmour
NazioneAustria, Francia, Germania
Anno Produzione2012
Durata127'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Georges e Anne sono una coppia di ottantenni, colti insegnanti di musica in pensione, che vivono la loro quieta vita borghese a Parigi. Una mattina, Anne è colpita da un ictus. Inizia per lei un lungo decadimento fisico e per il vecchio marito una difficile prova d’amore

RECENSIONI

Giacomo Leopardi, nel celebre Dialogo della Natura e di un islandese, immagina un uomo – l’islandese, appunto, nato in una terra glaciale – che ha passato tutta la vita cercando di fuggire la natura ma infine la incontra, per suo sommo scoramento, e perisce. Non prima di aver appreso, però, che la natura è indifferente ai problemi degli uomini e che nel mondo non c’è nessuna cosa che sia “libera da patimento”. L’islandese è ingenuo: stupito del male del mondo, non riesce a chiarirselo ma è appassionatamente convinto che esista una spiegazione. Però ha scelto, come regola di vita, la fuga. “Vo fuggendo la Natura”, dice “e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa”. Negare la Natura (vale a dire negare il Male) è l’astuto stratagemma dell’Occidente per dare coerenza alle premesse della propria civiltà: ma anche nel più fortunato dei casi, cioè quando si riesce a evitare sempre, per tutta la vita come ha fatto l’islandese, la violenza umana e l’abuso e il cataclisma atmosferico, la Natura, alla fine della vita, ha la meglio. “Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio”, risponde la Natura all’islandese, “finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi”. Così accade a Anne e Georges in Amour, che incontrano il male naturale alla fine delle loro vite. E per la prima volta nell’opera di Michael Haneke assistiamo a un’importante rottura: un uomo decide di affrontare il male, di capirlo – e noi siamo lì con lui, dentro il suo mondo, senza negazioni. Questo è l’amore.

Sin dall’agghiacciante Il settimo continente, Haneke ha scelto di dedicare il suo cinema alla rappresentazione della violenza – o meglio, alle modalità in cui rappresentiamo la violenza e assistiamo alla violenza rappresentata. In espressa contrapposizione alla mercificazione della violenza di un certo cinema hollywoodiano, Haneke ha voluto espressamente teorizzare e rivelare la patologia insita nel consumo di violenza. Il male, nei film di Haneke, avviene perlopiù fuori campo. Questa negazione della rappresentazione diretta della violenza (che rende più difficile ma più intensa l’esperienza per lo spettatore) riecheggia e amplifica la negazione della violenza (del male, della natura) a cui lo stesso spettatore è abituato. Trasformando la violenza in oggetto di consumo, il cinema spettacolare l’ha mistificata, ha provato a domarla e a spogliarla della sua essenza minacciosa, ma anche del suo significato. Impacchettandola in mercanzia da banco, ha cercato di segregarla – sperando così di espellerla dalla realtà degli uomini, per vincolarla alla sub-realtà dei prodotti. Si tratta di un procedimento simile a quello che la società dei consumi ha riservato al sesso e che Marcuse alla fine degli anni sessanta del Novecento ha battezzato “de-sublimazione repressiva”: una liberazione dei costumi che nasconde invece conformismo e amministrazione dell’esistenza. Allo stesso modo, la violenza ostentata, de-sensibilizzata e mercificata è per Haneke un camuffamento, un trucco, una negazione che passa per un’apparente svelamento.
Con metodo omeopatico, quindi, l'Autore austriaco ha segregato il male fuori dall'inquadratura per svelare questa negazione, per ricordare allo spettatore la disturbante presenza reale della violenza privandolo della sua abituale e confortevole presenza virtuale. Così ha messo fuori campo l'autodistruzione metodica e raggelante della famiglia Schober, nel suo primo lungometraggio per il cinema; gli atti di sadismo autoreferenziale e narcisistico dell'adolescente Benny; le torture inflitte dai due ospiti inattesi in Funny Games e Funny Games USA; le misteriose esecuzioni del Nastro bianco. C'è sempre un campo impenetrabile in cui il male svolge le sue ragioni. Nel cinema hollywoodiano è un campo accessibile e aperto: guardi, ma non vedi - come illustra la memorabile inquadratura finale di Caché - Niente da nascondere. Nei film di Haneke, invece, non vedi ma proprio per questo riesci a guardare.

Con Amour è successo qualcosa. Abbiamo fatto irruzione, di colpo, nella gabbia impenetrabile del male, e ci siamo rimasti per tutto il film. È l’appartamento di Georges e Anne, il loro quieto rifugio, la loro confortevole nicchia di routine borghese. Per la prima volta, siamo dentro il recinto della violenza. Per la prima volta, la violenza non è quella dell’uomo contro l’uomo, né quella della società contro i cittadini, né ancora quella dell’Autore contro lo Spettatore. È la violenza della natura, il male innocente e inevitabile, il patimento ineluttabile di tutte le cose. Per la prima volta, il protagonista sceglie di guardare, capire, accettare il male. Nessuna negazione, ma una riconciliazione. Si tratta di un mondo difficile e doloroso, materialistico e destinato alla sofferenza. Ma Georges e Anne lo affrontano con una intelligenza sobria e una dedizione spoglia, dura, fredda, ma incredibilmente umana anche nelle scelte più estreme. Non è misantropia, ma lucido realismo. L’umanesimo di Haneke è comunque freddo, asciutto, spietato: non ci sono consolazioni, né conforto dall’esterno. Chi è fuori dall’appartamento continua a negare la realtà. La figlia di Georges e Anne, interpretata da Isabelle Huppert, rifiuta la malattia della madre e il declino inevitabile che la condurrà alla morte. L’ex studente che viene in visita mostra l’imbarazzo dei sani di fronte all’invalidità. Nessuno è disposto a affrontare il male e ad accettarlo. L’irruzione finale (iniziale, nell’intreccio) nell’appartamento è una violenza anch’essa: una violazione autoritaria cui segue una specie di disinfestazione che consentirà alla figlia di prendere possesso della casa e continuare la sua vita. La scena di chiusura, con le stanze arieggiate e vuote, segna che il processo di negazione è stato riattivato e compiuto nuovamente: la casa dei vecchi è disinfettata dalla violenza e dalla malattia e gli uomini possono riprendere le loro vite.

Ma l’amore di Georges, forse, non è solo la comprensione del male e la sua difficile condivisione, fino all’estremo. È anche la segregazione stessa del male. La vera, autentica intelligenza della natura (capire, cioè, come dice la Natura all’islandese, che “la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo”) consiglia forse che la distruzione dei moribondi sia nascosta ai vivi, perché questi non possono e non vogliono capire. Georges chiude, serra, imprigiona, occulta, così che il lamento agghiacciante della sua compagna di vita (“Mal!, Mal, Mal!”) rimanga dentro i confini della loro esperienza privata. Vuole che la vita rimanga tale, libera e inconsapevole, fuori dalla loro gabbia mortuaria. Una delle scene più belle resta quella in cui Trintignant s’industria per far volare fuori dalla finestra un piccione entrato in casa. Forse Georges è l’amorevole cerimoniere di un Occidente in decadenza: sa che chi sta fuori non saprebbe condividere quel male. Haneke, invece, ci chiede di restare dentro insieme con Georges, vuole finalmente mostrarci il male, con fredda e completa trasparenza. Spera, forse, che avremo abbastanza amore per non fuggire via.

Seppur con le dovute concessioni agli stravolgimenti più inaspettati e divagazioni oniriche, Haneke opta per un registro che fa del realismo la sua arma più affilata, tagliente e feroce. Introduce la visione con titoli di testa laconici e rigorosamente muti, per passare alla descrizione di un ambiente, un interno borghese, e del ritrovamento che segue, narrativamente funzionale. Poi, dopo ancora,  degli spettatori che si sistemano tra le poltroncine di un teatro: un concerto.
Adesso ci sono un uomo e una donna anziani, Anne e Georges, che, dopo l'esperienza in teatro, fanno ritorno alla loro abitazione, la stessa apparsa poco prima. La serratura del loro appartamento è stata forzata, ma tutto l'arredo sembra intatto: niente è stato rubato o manomesso.
Lo stesso appartamento mostrato due volte, in due momenti lontani nel tempo, un prima che coincide con la fine e un dopo che ne rappresenta l'inizio, per ben due volte subisce la stessa sorte: viene violato, viene “aperto” forzatamente (dai pompieri prima, dai ladri dopo), portando alla luce il mistero che custodisce, o semplicemente svelandolo nella sua intimità quotidiana, permettendo così alla macchina da presa di scivolare all'interno di quegli spazi dove rimarrà ingabbiata per tutta la durata del film. Tra quelle mura inizierà il calvario di Anne, colpita da un ictus che la porterà alla perdita graduale delle facoltà vitali, e di Georges, testimone onnipresente del lento declino della sua compagna di vita. Lo sguardo, che Haneke ci obbliga a tenere, è fortemente intriso di un realismo crudele e raggelante che gioca sull'immedesimazione, ottenuta sia dall'interpretazione  impeccabile fino alla commozione dei due attori protagonisti, sia dal transfert iniziale pubblico al di qua dello schermo – pubblico al di là dello schermo. La scena della platea del teatro che si popola di spettatori è una rifrazione che condanna stavolta noi spettatori a cercare tra volti anonimi i protagonisti, e di conseguenza, come in uno specchio, a cercare inevitabilmente noi stessi, tenuti a distanza dalla finzione cinematografica.

L'irruzione nell'intimo, nel corpo appesantito e dolorante della narrazione adesso è totale: l'insistenza dei piani sequenza sul corpo di Anne che di giorno in giorno si trasforma in un involucro rigido e deformato, sui gesti di Georges che tenta di ristabilire la normalità o quanto meno di limitare i danni della malattia sul corpo della moglie, l'ostinazione sulle azioni più banali e al contempo devastanti per la dignità umana (l'abbandono fisico e non controllato nei confronti di un'altra persona, il venir meno della propria indipendenza, il dover abdicare la propria libertà, l'affetto che diventa compassione e dolore lancinante anche per chi è testimone della tragedia) sono le cifre stilistiche che portano la rappresentazione della realtà a brillare in maniera più vivida e agghiacciante davanti ai nostri occhi. Un realismo spietato e devastante dove i corpi sono involucri piegati dal dolore, dove la solitudine diviene insopprimibile e annichilente, dove l'impotenza dell'azione umana prorompe, soffocando ogni barlume di miglioramento. Ogni elemento allude alla fine ultima, non solo i corpi anziani che si trascinano in un limbo di abbracci compromessi (il contatto tra i due coniugi diviene meccanico, forzato dalla malattia, gesti spezzati che imprimono fatica alle azioni più elementari della quotidianità), ma la stessa casa-rifugio assume la forma di un immenso scheletro dal quale si stanno disperdendo gli ultimi effluvi vitali.
Amour sembra così suggerire, attraverso l'immedesimazione totale e devastante nella carne dei protagonisti e nell'architettura dell'intimità, l'idea che quella rappresentata sullo schermo sia la dimensione della morte declinata nella nostra contemporaneità: obbligati a vedere e ad assistere impotenti, costretti a rimanere al nostro posto di spettatori davanti alla preparazione della morte fin dentro i corpi ancora vivi, come se la comodità della vita borghese e moderna non fosse altro che un penoso e artificioso, quanto inutile insistere nel tentativo di allontanare da sé la decadenza e la fine. Poi l'inaspettato, la dimensione allucinatoria, un ritaglio onirico improvviso, che ci ricorda dove noi ci troviamo, temporaneamente al sicuro, al di qua dello schermo.