TRAMA
Il presidente d’una potente multinazionale viene eliminato, e il suo assassino ne prende il posto e ne sposa la vedova. Ma il figlio del defunto detiene la maggioranza delle azioni e non è disposto a cedere il passo; la mortale lotta per il potere è solo agli inizi.
RECENSIONI
Nella prima fase della carriera, Kaurismäki ha trasposto sullo schermo alcuni classici della letteratura e del teatro (Delitto e Castigo, Amleto, Le Mani Sporche).
Amleto si mette in Affari risale a un periodo anteriore al successo internazionale del suo autore; offre perciò l'occasione di verificare come egli sia nel tempo rimasto fedele a se stesso, non sacrificando nulla della propria poetica fuori moda alle richieste d'un pubblico via via più vasto.
Nell'incontro col ridondante genio di Shakespeare, Kaurismäki procede a una disinvolta attualizzazione non meno che a una drastica semplificazione e concentrazione: via numerosi personaggi, i lunghi dialoghi e i monologhi, gli estenuanti confronti dialettici, le sfumature edipiche nel rapporto Hamlet-Gertrud.
Il film è un rapido (appena 86 minuti) condensato d'azioni significative: la sequenza d'apertura e quella dell'uccisione di Rosencrantz e Guildenstern sono assolutamente esemplari, al riguardo.
È un distillato di poche, essenziali parole che galleggiano in mezzo a silenzi e a sguardi tanto più forti quanto meno sono sottolineati dalla recitazione, aliena da ogni eccesso d'analisi come da contorsioni psicologiche: in questo senso, Amleto... è davvero "dramma" allo stato puro, recuperando quell'espressività affidata alla diretta potenza significativa dello sguardo e dell'azione - l'ascendenza bressoniana si avverte fortissima - ma rifiutandone le degenerazioni iperboliche o istrionesche per ricondurla alla matrice originaria, keatoniana e chapliniana (e il protagonista non mancherà di sbeffeggiare, nelle sue indicazioni al capocomico, la “grande recitazione”: parlare ad alta voce e con tono solenne, agitare le mani, guardare con intenzione come se si avesse qualcosa d'importante da dire): la scena del suicidio di Ofelia è, in questa chiave, tra le cose più grandi che Kaurismäki abbia mai realizzato.
È un susseguirsi d'atmosfere create con l'ausilio d'una colonna sonora composita ed eterogenea, in cui compaiono intrecciati Caikovskij e il rock, Šostakovic (che già aveva alimentato l'Amleto di Kozincev) e il twist; e col bianco e nero di Timo Salminen, abbagliante e cupo al tempo stesso, che rievoca la minacciosa plasticità del noir e certi squarci bergmaniani (la prima conversazione tra Hamlet e Gertrud). D'altra parte, molti sono i registi presenti nel cinema di Kaurismäki, celebrati non già ad onta bensì attraverso le stralunate incongruenze che si insinuano nelle scene di omaggio: l'unico modo consentito dalla poetica del regista per rendere grazie ad autori amati.
Una tragedia corretta con un sarcasmo impassibile – la cifra di certo più immediatamente riconoscibile della poetica di Kaurismäki – e col grottesco di frasi o situazioni. Nella fusione della dimensione drammatica e di quella da teatro dell'assurdo, alla Ionesco, l'intensità della prima viene ora contraddetta (quando prevale un acre intento polemico), ora meglio rivelata (quando prevale l'umanesimo dolente dell'autore) dal sorriso che la seconda ci strappa: sotto questo aspetto, l'inopinato anticlimax nella scena dell'uccisione di Lauri - un vero e proprio gag - e l'altrettanto inopinato climax nella scena dell'avvelenamento di Gertrud sono la quintessenza di Kaurismäki; e poi, i brevi momenti di malinconia struggente, inconsolabile, che variamente coinvolgono i personaggi: ad esempio, Ofelia ripete il gesto del padre così dichiarando la propria somiglianza con lui, ma al tempo stesso esprime in una frase appena accennata e subito sospesa i propri dubbi sulla macchinazione di cui è complice.
La lettura che di Amleto offre Kaurismäki è nettamente politica, come dimostrano oltre ogni dubbio la concezione del personaggio di Polonio - raziocinante e gelido calcolatore arrivista, ben più che nell'originale - e soprattutto la figura del protagonista, che non somiglia troppo al principe di Danimarca: è un giovane non certo dubbioso o disgustato dalla nequizia del potere, ma viziato, ambizioso, crudele, vorace come tutti i membri della sua classe sociale (è stata opportunamente messa in rilievo l'eco buñueliana di questa rappresentazione metonimica d'un ceto attraverso la ripetizione compulsiva dell'atto che meglio lo identifica), assassino di suo padre (clamorosa ed estremamente significativa contravvenzione al testo shakespeariano). I tratti di Amleto si confondono con quelli di Macbeth, la “lotta per la successione” nella società per azioni riguarda la conquista del potere economico ed è l'equivalente del conflitto dinastico; l'avidità governa le scelte di un mondo che sprofonda nelle "gelide acque del calcolo egoista", secondo un'espressione di Marx cara al regista. D'altra parte, questo è il solo film di Kaurismäki i cui protagonisti facciano parte quasi per intero (fanno eccezione l'autista e la cameriera, controcanto umano a un universo di mostri) dell'alta borghesia, industriale e supremamente ricca. Non a caso cadono dunque alcune citazioni - citazioni à la Kaurismäki, è ovvio, spogliate d'ogni sontuosità scenografica e guidate dal gusto brechtiano della contraddizione - da La Caduta degli Dèi (la conversazione fra Klaus e Lauri, la ciocca di capelli, la lunga tavola della sala da pranzo più deserta a ogni occasione, l'inquadratura finale sulla fabbrica in piena attività), film con cui Visconti aveva voluto realizzare un Macbeth contemporaneo.
Ricusando ogni facile esteriorità, e affidandosi a uno sguardo che appare reticente perché non si sofferma sulle superfici appariscenti mentre del reale sa indagare le pieghe riposte - quelle che non possono essere dette - il regista coglie il tragico dell'esistenza, l'improvvisa resipiscenza d'un personaggio, il valore morale d'un gesto, l'inumanità d'un sistema sociale che eleva l'avidità a valore prioritario, il peso d'un silenzio, tutta la materialità e la fatica del lavoro. Solo i fratelli Dardenne, oggi, competono con Kaurismäki in quest'arte, che non si fa scudo dei mirabilia tecnologici o del virtuosismo formale per nascondere il vuoto, ma ha il coraggio di restituire la dignità della forma a tutto quanto sembra essere, nella bulimia di spettacolarità in cui siamo giocondamente immersi, inadeguato o privo d'interesse.
