TRAMA
American Splendor è basato sulla saga autentica di un uomo comune che ha trovato amore, famiglia e una voce creativa attraverso i fumetti.
RECENSIONI
Il vero Cinema in 3 D (senza bisogno di occhiali)
L'ennesimo fumetto saccheggiato dal cinema si potrebbe pensare, perché "American Splendor" è una serie di strisce di culto nell'underground newyorchese, invece il film di Robert Pulcini e Shari Springer Berman, vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival 2003 e presente anche a Cannes nella sezione "Un Certain Regard", è un'opera di difficile classificazione. La struttura è molto complessa e si basa sull'interazione di tre differenti livelli narrativi e visivi. Prima di tutto c'è il fumetto, che deve il suo successo alla capacità di raccontare la vita di un uomo qualunque di fronte a difficoltà quotidiane: un impiegato alle prese con le donne, gli amici, i venerdì sera alcolici, il routinario lavoro di archivista, le ambizioni, la spesa al supermercato. La sua forza è nell'antieroismo del protagonista e nello sguardo disincantato e ammantato di purezza con cui attraversa le voragini emotive causate dal semplice ma implacabile succedersi delle giornate. Un aspetto che trova terreno fertile nel lettore/spettatore perché consente una diretta immedesimazione. Al fumetto, che interrompe e arricchisce in più di un'occasione il racconto, si aggiunge il documentario, con i reali protagonisti della vicenda: Harvey Pekar, sua moglie, i colleghi di lavoro, gli amici e i conoscenti. Il fumettista, infatti, non ha fatto altro che trasferire su carta, con l'aiuto di disegnatori esperti, la sua vita, affrontata con un piglio da "Forrest Gump" più cupo e consapevole. Alla realtà si affianca poi la finzione cinematografica, che inscena le comic-strip che a loro volta ripercorrono la vita dell'autore. Un unico Harvey Pekar, quindi, e tre diversi modi di metterlo in scena attraverso una complicata miscellanea di forme espressive che giocano tra realtà e finzione raggiungendo un miracoloso equilibrio. Il merito è soprattutto della regia che riesce a tenere sotto controllo la resa espressiva di ogni singolo elemento. Strabiliante l'aderenza fisica di Paul Giamatti, una sorta di fumetto in carne ed ossa grondante simpatia. Alla fine ciò che ne esce è un originale ritratto della provincia americana (il luogo dell'azione è la cittadina di Cleveland nell'Ohio) tra il sorriso e la malinconia. Un modo singolare e ironico di farsi beffe e cavalcare il sogno americano.

Che l'epica americana sia consegnata ai fumetti ce lo stanno ricordando in tanti (a parte tutta la celluloide tratta dai giornaletti di successo conclamato, anche quella di fenomeni meno vistosi quali GHOST WORLD - senza dimenticare l'indiretto omaggio dello Shyamalan di UNBREAKABLE e, in letteratura, il Michael Chabon de Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay -): quella rappresentata nelle vignette di Pekar è sì una controepica della sconfitta, ma non meno attraente di quella vittoriosa degli eroi della Marvel, per quanto più difficile da digerire (vedasi il significativo incipit dei bimbi travestiti per Halloween). La storia dell'antieroe, ritratto senza idealismi in un fumetto-verità in sensibile anticipo sui tempi, si dipana su tre livelli - vita reale, comic e film - e si muove a metà strada tra documentario e fiction anche se in modo non necessariamente arguto dato che, mi pare, la questione lasciava spazio a ben poche alternative: autobiografico il fumetto, inevitabilmente autobiografico il film che parla della vita di Pekar - e quindi del fumetto - e in cui si racconta, alla fine, della pubblicazione del fumetto che parla del film che viene tratto dal fumetto. Un contorsionismo cacofonico e autoreferenziale - in cui le diverse piste vanno ad incrociarsi sull'uomo in quanto personaggio e viceversa - che pur avendo una sua finezza, prosciugato com'è da retoriche e tentazioni celebrative, sembra però consumare in questa spirale e nel suo peculiare ibridismo gran parte dei suoi motivi di interesse.

Lonely Tunes
Alla loro prima esperienza di fiction, i documentaristi Berman e Pulcini traggono dai fumetti (autobiografici) di Harvey Pekar una fantasia visiva in cui i diversi livelli di realtà (e/o simulazione) mescolano senza tregua le carte del racconto, evitando con sorprendente levità le trappole tipiche del docu-drama. Fumetto animato (popolato da attori e disegni in felice coabitazione), racconto canonicamente (de)strutturato (scene della vita di HP, interpretate magistralmente da un cast in cui spicca la classe di Hope Davis), intervista (a HP, alla moglie, ad amici e collaboratori più o meno diretti e/o volontari), visita guidata del set (persone e arredi scenici sospesi in uno spazio vuoto e bianco difficile da dimenticare – più brechtiano di tanti esperimenti scandinàààvi di nuovo conio –), documentario (le puntate del David Letterman Show) s’incontrano, si specchiano, si contraddicono (senza proporre chiavi di lettura di definitiva inutilità) e creano una rapsodia brillante e a tratti struggente. Se la vita è illusione, l’illusione è vita: le maschere (anche invisibili, vedi la scena prima dei titoli di testa, in cui Harvey si traveste da… se stesso per Halloween) permettono di sopravvivere nel carcere di un fumetto grande(/piccolo) e segretamente solitario come l’esistenza.
