Commedia, Recensione

AMERICAN HUSTLE

TRAMA

Il truffatore Irving Rosenfeld lavora insieme alla sua amante. Scoperti dalle autorità, vengono obbligati a collaborare, lavorando per un agente FBI fuori controllo, Richie DiMaso. DiMaso li catapulta in un pericoloso mondo di faccendieri, intermediari del potere, mafiosi…

RECENSIONI

American Hustle esalta il precipitato del making movies di David O. Russell: la cinepresa è dell'attore. Concentrato sulle performance, sulle modalità di incarnazione dei personaggi, il regista continua a magnificare gli interpreti, costruendogli attorno il suo cinema. In questo senso American Hustle è opera autoriflessiva e teorica, puntando l'attenzione, come fa, sul dualismo realtà/ finzione, giocando sfrontatamente con il corpo attoriale, proponendo dottrine sul travestimento, moltiplicando i ruoli da ricoprire. Tutti gli interpreti sono attori riconoscibili in disguise, eccessivi e ultramanierati (la pancia prominente - che il regista ostenta come sfrontata rivendicazione autoriale - e il riporto di Bale, i riccioli finti di Bradley Cooper, le mise di una Amy Adams letteralmente trasformata, le acconciature barocche di Jennifer Lawrence, il ciuffo a banana e la palese tinta della capigliatura di Renner, gli occhialoni di De Niro), le loro prestazioni tutte sopra di un tono (forse due), a rendere il doppio grado della questione: quello di un film in cui palcoscenico e dietro le quinte sono la stessa cosa, che parla di rappresentazione, artifici, gioco delle parti, resa dei caratteri (Bale che costruisce la sua immagine sullo schermo a beneficio dello spettatore nella prima, programmatica scena; Amy Adams che prova i vestiti abbandonati in lavanderia; Bradley Cooper con i bigodini, al telefono con Amy Adams imbigodinata anch'ella; un messicano che deve passare per uno sceicco arabo), di recite che, come il cinema, vogliono spacciare una finta realtà. La filosofia dei personaggi, dunque, si fonda sul dogma per il quale la gente crede a ciò che vuole credere: allora il truffatore/gigione è tanto più autentico quanto più finge e persino il sesso, la cui modalità di rappresentazione è altro nodo squisitamente cinematografico, è condizionato dall'infingimento («Eravamo d'accordo così: non è vero quindi non lo facciamo. Non lo facciamo fin quando non siamo sicuri che è vero»). Gli attori (la palma ad Amy Adams) - nelle parti di persone che recitano a loro volta - sono dunque il film, scelta estremizzata che mette coscientemente in secondo piano la storia (ispirata, ed è vertigine, ad una vicenda reale), tanto da far sviluppare orizzontalmente la narrazione, soffocate come sono, le sue svolte, dal ribollente smaniare dei caratteri. È il principale motivo di interesse del lavoro, ma anche il suo limite: se Il lato positivo riusciva ad amalgamare caratteri e sviluppo della fabula ai generi frequentati (la commedia, il dramma), qui il febbrile agitarsi delle presenze sullo schermo, la fittissima dialogistica, l'acting parossistico si impongono fino a dilagare. Un film che al ritmo convulso, i bruschi flashback sul passato prossimo, la voice over, la frammentazione narrativa - vezzi di stile (si aggiungano le zoomate, di cui due quasi citazionistiche: introduzione e congedo del personaggio del mafioso interpretato da De Niro) che rimandano a Scorsese - contrappone una concreta, magmatica sostanza tragicomica, molto pensata, arrogantemente consapevole, disciolta nell'ambientazione anni Settanta (segnalata didascalicamente da una colonna sonora che strizza l'occhio fino al tic), scenario finto/vero anch'esso. La resa finale, lungi dalla sintesi degli elementi, sull'andante monocorde degli exploit muscolari, suona obbligata, irrigidita quasi dall'intento metariflessivo, dalla ricognizione definitiva di una poetica d'autore.

David O. Russell, anche sceneggiatore (leggi: stravolge, come ama, lo script dell’Eric Singer di The International), si muove sulle tracce del truffatore Mel Weinberg e del caso Abscam di fine anni settanta, ma la sua commedia non cerca la ricostruzione (romanzata) degli eventi alla Argo (apparente parente stretto), perché affabula quanto può e restituisce un quadro buffo con truffa che, a livello di scrittura, è in gran parte strepitoso per ideazione dei personaggi, gioco fra realtà e finzione (c’è una crisi sentimentale, l’attrice di “mestiere” Sydney Prosser indossa una maschera, ed è impossibile determinare fino a che punto essa la rappresenti), tema “filosofico” delle sfumature di grigio vs. ottusità del bianco e nero (vedi il personaggio di Bradley Cooper, anche produttore esecutivo), paradosso dell’operazione di polizia in cui si innesta un triangolo amoroso (o viceversa), tema del “karma” di un imbroglione che espia le malefatte con una moglie che lo manipola a piacere (Jennifer Lawrence), sottotraccia con ossessione per i capelli (vittime: Christian Bale e Bradley Cooper) e “varie ed eventuali”, legate a questi schizzi caratteriali dove l’arte dell’improvvisazione attoriale, secondo la formula Russell, pare (pre)scritta di tutto punto. Qualcosa s’incrina nella scena in cui compare Robert De Niro, per altro sottilmente metacinematografica, in cui il grande attore, che ha fondato il suo mito anche sul trasformismo, si presenta con maschera (calvo e con occhiali) ad affrontare il “nuovo” grande attore che pare seguirne le orme, Christian Bale, ingrassato e con riporto: quando De Niro parla in arabo per scoprire se lo sceicco è un falso, Russell esagera con la lunghezza dei silenzi imbarazzanti, non rendendo credibile che i mafiosi mangino la foglia. Niente, però, a confronto di una parte finale che, purtroppo, è più interessata all’effetto del colpo di scena con truffa nella truffa, dimenticando di portare a conclusione tute le stimolanti riflessioni seminate nel percorso (e non ci riferiamo al finale del racconto del superiore di Bradley Cooper), raccontando in fretta e furia (e con Io narrante) la fine dei personaggi, rientrando in pieno in convenzioni che, fino a lì, il regista aveva abilmente aggirato. Lode al costumista che pare, al contempo, rievocare e canzonare il look di quegli anni, lode al soundtrack con pezzi noti ma non sputtanati anni settanta, e lode ad una Amy Adams molto erotica.