Azione, Recensione, Sala

AMBULANCE

Titolo OriginaleAmbulance
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2022
Genere
Durata136'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Remake dell’omonimo film danese del 2005 diretto da Laurits Munch-Petersen: due fratelli vogliono rapinare una banca ma qualcosa va storto e si ritrovano a fuggire per le strade di Los Angeles a bordo di un’ambulanza.

RECENSIONI

Michael Bay ha un suo stile. Può piacere, può non piacere e lo si può detestare ma è innegabile che il suo cinema non sia genericamente action. Visivamente, il tratto distintivo è il perenne movimento. L’inquadratura fissa non è sostanzialmente contemplata: c’è una predilezione per il “piano ravvicinato nervoso” sui soggetti/oggetti statici e quando i personaggi o i mezzi di trasporto si muovono, la macchina da presa non si limita a seguirli ma aggiunge traiettoria a traiettoria, facendole spesso incrociare o correre in direzioni opposte, mentre le inquadrature dall’alto precipitano vertiginosamente disegnando disorientanti codici di geometrie esistenziali. Ma non finisce qui. Un’altra cosa che fa Bay e che lo caratterizza, stavolta a livello narrativo, è riuscire a rendere ingarbugliate trame semplici – o meglio – a dimenticarsi (e a farci dimenticare) che ci sarebbe una storia da seguire, storia che, da un certo punto in poi, diventa talmente incoerente e inconsistente da evaporare per lasciare tutta la scena all’azione iperattiva di cui sopra. Nella fattispecie, il movimentato inseguimento dell’ambulanza si protrae talmente a lungo e con dinamiche talmente prive di senso che non ci interessa più chi scappa da chi e perché, non ci importa niente delle sorti dei protagonisti e del poliziotto ferito, ci limitiamo a seguire le coreografie motoristiche e a prendere atto delle naturali evoluzioni dei personaggi, che tra una derapata e un’altra seguono il loro inevitabile e già previsto percorso drammatico.

Quando la situazione rallenta un po’, nel covo dei malavitosi, Ambulance si trasforma nella versione edulcorata del Tony Scott più obliquo (True Romance, Domino) per poi concludersi come avevamo già previsto al minuto 15 o giù di lì: il protagonista Yahya Abdul-Mateen II, colpevole privo di colpe, viene perdonato dal cinema di genere (non che ce ne fosse bisogno, già dopo l’incipit didascalico/ricattatorio era tutto più o meno chiaro), il fratellastro Jake Gyllenhaal no, ha modo di mostrare anche la sua umanità ma l’ha fatta troppo grossa, mentre Eiza González, tipico personaggio femminile bay-ano, ossia cristallizzato in una bellezza da spot Levi’s anni 90 qualunque sia il contesto, completa il suo percorso di formazione che la vedrà emanciparsi dal freddo cinismo che la contraddistingueva, e che avevamo scoperto alla fine della sequenza forse migliore del film tutto, quella iniziale del salvataggio della bambina, nella quale si intravedono risvolti emotivi meno precotti del solito.
Certo non è moltissimo, certo non  basta a dotarlo di una qualche parvenza di autorialità ma mi sembra innegabile che Michael Bay abbia una sua idea di Cinema che persegue con, per certi versi, ammirevole pervicacia.