TRAMA
Marie e Alex, compagne d’università, attraversano la campagna francese per raggiungere la casa dei genitori di quest’ultima. Raggiunta l’oasi di pace e tranquillità favorevole al loro premeditato periodo di studio non sanno cosa le aspetta, o forse sì…
RECENSIONI
In video veritas – Alt(r)e tensioni del cinema
Se casca il mondo, allora ci spostiamo
Se casca il mondo, sarà perché ti amo
Ci voleva l’irrefrenabile fenomeno dei teen horror e il revivalismo di un genere caduto quasi in disgrazia (senza dimenticare l’assordante brusio di critica e pubblico intorno al caso) per far capire alla distribuzione italiota (crasi degli aggettivi “italiana” e “idiota”) che forse sarebbe giunta l’ora, a distanza di due anni e rotti, di acquistare una pellicola come Haute tension (?).
Dietro la banalità di un titolo che potrebbe confondersi con mille altri di blockbusteriana assonanza si cela un’opera di terrificante vigore visivo in grado, finalmente, dopo interminabili lustri di esondante sciatteria frammista a sperimentazioni ammiccantemente metacinematografiche, di elargire sonore e feroci scudisciate all’ansiogena e disattesa volontà di vedere dell’occhio tradito dell’horrorofilo d.o.c., restituendo un senso autentico all’area semantica del termine orrore.
Alexandre Aja elegge la tranquillità apparente della campagna francese come scenario in cui immergere l’inattesa tragicità del quotidiano, giocando ab initio abilmente con l’inquietudine del presentire legata al topos delle superfici profonde: il paesaggio rurale è già nel nostro immaginario (cinematografico, letterario etc.) presago di catastrofi. La sicurezza delle canzonette ascoltate alla radio (nel corso del film Aja opererà su ben altre distorte sonorità) nell’abitacolo dell’auto che condurrà le due ragazze verso l’ignoto (i Ricchi e poveri disvelano anche la scoperta intenzione cinefilica da parte dell’autore di rifarsi a una cinematografia nostrana d(’)annata con I corpi presentano tracce di violenza carnale di Sergio Martino in bella vista per gran parte del film, e quel Giannetto De Rossi curatore della truclenza degli effetti è lì apposta per avallare qualsiasi tesi si muova in questa direzione, senza per questo dimenticare lo slasher di matrice hooperiana; espressione comunque di un citazionismo che non vuol essere motivo sterilmente referenzialista, bensì elemento di appagata e divertita funzionalizzazione diegetico-visiva) accostata al raccapriccio scenico di una testa mozzata (con agghiaccianti incursioni necrofile) genera subito un cortocircuito che ci introduce, mediante un notevole disorientamento delle percezioni, in un film costruito precipuamente sull’“effetto rottura”, e in questo senso la lauta messe di smembramenti comincia a configurarsi come galleria di grandguignolesche immagini dal senso altro dal puro e semplice gusto onanisticamente orrorifico della carneficina; (la ricerca del)l’estremo è presente, ma è altro(ve). La rappresentazione dell’orrore riesce ad inabissarsi ulteriormente toccando livelli di secondo grado quando Aja escogita un côup de théatre stupefacente che fa appunto cortocircuitare l’unità di senso narrativo fino ad allora faticosamente (e sanguinosamente) raggiunta, una sorta di fase dello specchio lacaniana grazie alla quale, sola, possiamo riconoscere, attraverso sbalestramenti progressivi/regressivi del racconto, il corpo/immagine di Marie, come corpus diegetico del film. Il video della telecamera installata nello store del benzinaio è depositario della verità delle immagini e dei corpi disseminati nel film. L’aprés côup o agnizione di questo evento ci informa che la realtà messa in scena è non altro che messa in delirio fantasmatica di una mente disturbata che a partire da una nevrosi derivante dall’amore d’oggetto non può far altro che allucinare il reale. Sembra quasi, straordinariamente, la verità sul cinema. Haute tension è il gioco estremo delle immagini dissociate dall’istanza schizofrenica di chi guarda (anche L’uomo senza sonno di Brad Anderson aveva fatto meraviglie in questo senso). Lo svelamento tardivo innesca un meccanismo perverso di attraversamenti illogici e di passaggi che sconfinano nell’onirico e nel simbolico di una realtà non tale ma immaginata, distorta, psicologizzata dal principio di piacere e di morte (“non permetterò a nessuno di mettersi tra noi due” ripete mantricamente Marie all’inizio e alla fine del film, circolarmente, poiché il film, come il mantra, nella maggiorparte dei casi è un cerchio, ossessivo come il circuitare ripetuto del pensiero fisso di esclusione per eliminazione nei confronti dell’amata Alex nella psiche devastata dell’inquietante compagna d’università). Alt(r)e tensioni. Je est un autre. Il cinema tende ad altro, il cinema è (l’)altro. Ancora la tematica della schisi, dello sdoppiamento, delle identità che si perdono tragicamente, splendidamente, nelle tutt’altro che bucoliche suggestioni paesaggistiche del midì francese, e che non si ritrovano, certo, nella tetra e angosciosa notte fallocentrichicida (la bella è una donna, la bestia mostruosa l’uomo) finale, o nell’ancor più angosciante e gelida asetticità manicomiale.
Alexandre il Grande (baro)
Due ragazze decidono di passare il fine settimane in campagna, nella casa isolata di una delle due. Il programma prevede relax, chiacchiere in famiglia e ore di studio. Un maniaco che si aggira nella zona tramuterà i placidi propositi in puro orrore. Sembra la stessa, trita, situazione di sempre, ed in effetti lo è, ma il pregio del talentuoso regista francese, il giovane Alexandre Aja, è di dimostrare come una situazione oggettivamente paurosa sia in grado, comunque, se ben condotta a livello cinematografico, di terrorizzare, facendo vacillare ogni certezza. E la regia si dimostra abilissima, nonostante l'assenza di qualsiasi originalità, nel flirtare con tempi, spazi ed effetti sonori, che contribuiscono ad alimentare l'atmosfera senza limitarsi ad improvvisi sbalzi di volume. Tutti i luoghi comuni vengono rivisitati, dal nascondiglio nell'armadio o sotto il letto, fino all'ennesima fuga nei bagni con tanto di apertura delle porte ad una ad una, ma il bello è che si trepida sempre insieme alla protagonista (la brava Cecile de France, nuova icona, fin dal cognome, del cinema d'Oltralpe) perché, grazie anche alla sceneggiatura, abbiamo le sue stesse scarne informazioni e la sua stessa voglia di uscirne il più possibile illesi. Il maggior pregio del film è proprio nel ritornare alle fondamenta del "genere" (sangue e brividi) abbandonando i fronzoli, le battutine, i lunghi e vuoti dialoghi anticamera del massacro, la citazione fine a se stessa, e le troppe improbabilità dei moltissimi emuli dell'horror che stanno invadendo gli schermi in questi anni. Sarebbe bastata questa rozza ma efficacissima essenzialità per consentire al film di distinguersi. Purtroppo Aja ci mette anche un brutto colpo di scena che, pur non rovinando il film, lo riduce a mero esercizio di stile, e finisce con il prendersi gioco dello spettatore. Il problema è che il gioco è ben condotto, e avvince, ma le carte sono truccate.
Il ritorno del gore
Il film di Alexander Aja si inserisce chiaramente nel filone dell’horror patinato degli anni 2000: confezione impeccabile dal punto di vista tecnico, perfetta combinazione dei meccanismi della paura. In questa prospettiva il film pesca a piene mani dai più grandi successi degli ultimi anni, la cui funzione principale è quella di “happening intorno al concetto di paura” (per dirla con le parole di Renato Venturelli). Gli elementi dell’horror contemporaneo ci sono tutti: doppia identità, binomio sesso-morte, dualismo voyerismo-esibizionismo.
Dal punto di vista strettamente tecnico è da notare la fotografia impeccabile (ormai è uno standard acquisito anche dal livello medio-basso della produzione), ma soprattutto gli effetti speciali di make-up curati dal veterano del cinema horror italiano e internazionale Giannetto De Rossi. Anche la regia di Aja si colloca sul livello della media delle produzioni di questo tipo: si muove con una certa disinvoltura, e gioca con lo spettatore nella costruzione e de-costruzione della tensione. Non c’è nulla di nuovo, dalle figure ai procedimenti: si va dalla pedissequa riproposizione dei luoghi simbolo della tradizione della paura (campo di grano, bosco isolato, villa solitaria), alle soggettive alla Dario Argento, passando attraverso la narrazione per accumulo di dettagli fino al colpo di scena finale.
Il genere di appartenenza è lo slasher puro e semplice. Aja cita apertamente i suoi modelli di riferimento (Carpenter e Argento). La scena in cui la protagonista si nasconde nell’armadio ad ante della camera è un evidente omaggio al finale di Halloween in cui la giovane Jamie Lee Curtis sceglie lo stesso tipo di nascondiglio.
Il film si fa notare nel piattume della produzione horror degli ultimi anni (Dark Woods, Darkness) se non altro per due motivi. Primo, è uno dei pochi film il cui la protagonista è la pura e semplice messa in scena della violenza e degli squartamenti senza nessuna concessione al politically correct (donne nude comprese); secondo, ripropone il tema dell’amore saffico tra le protagoniste come nei vecchi film gotici di Antonio Margheriti e Jess Franco, cosa non da poco in un momento culturale in cui la messa in scena della donna come oggetto (del massacro o del sesso) è stata praticamente vietata a Hollywood e dintorni.
La storia ovviamente in questo genere di film è solo un pretesto per mettere in sequenza una serie di morti violente più o meno elaborate, e in questo Aja ci mette un po’ di mostarda (più sangue della media e ottimo make-up). Per il resto si segnala la brava (e soprattutto bella) protagonista femminile Cecile De France, nuova pulzella del cinema francese.
Le campagne francesi (ma è stato girato in Romania) sognano l’entroterra degli Stati Uniti (che hanno ricambiato, decretando il successo della pellicola oltreoceano) per fare l’horror di Non aprite quella porta, con tanto di motosega: una casa isolata, un pazzo omicida, nessuno che accorra in aiuto e nessuno che abbia un cellulare per chiedere soccorso. Tutte le inverosimiglianze che, per tre quarti del film, accompagnano la visione irritando non poco, sembrano inaudite dato che Alexandre Aja (e il produttore Alexandre Arcady, di cui è figlio) si limitano a imbastire uno slasher convenzionale, già solcato e replicabile, con varie mattanze (censurate in Tv e in alcune copie per il cinema), morbosi dettagli sessuali e sangue a fiotti. Poi arriva il colpo di scena finale, che ribalta tutto, non “rilegge”: nel senso che potrebbe spiegare quelle inverosimiglianze ma, in realtà, rivela solo un grande inganno, dove il regista ci ha mostrato un altro film (la soggettiva della follia). Il colpo di scena ha senso quando accresce le potenzialità di un racconto che sta in piedi già da solo: è deleterio quando, invece, ne influenza le tracce rendendolo del tutto implausibile.