TRAMA
1942. Il comandante di aviazione franco-canadese Max Vatan arriva a Casablanca per conoscere Marianne Beausejour e fingersi il suo consorte. Insieme i due devono farsi invitare al ricevimento dell’ambasciatore tedesco e assassinarlo. L’operazione è un successo e tra Max e Marianne nasce il più imprevedibile e incauto degli amori.
RECENSIONI
Un certo re, grande e potente, chiese una volta ad un poeta:
«Cosa posso darti di tutto ciò che possiedo?»
Egli rispose saggiamente:
«Qualsiasi cosa, sire... tranne il vostro segreto».
Plutarco (didascalia d'apertura di Mr. Arkadin)
Come scrive Roy Menarini nella prefazione del saggio di Andrea Caccia, Robert Zemeckis: verso lo sguardo del cinema e oltre, il regista di Allied «come tutti sanno, [...] sta cercando di anticipare i problemi ontologici connessi all'immagine cinematografica e [...] spiazzare le abitudini spettatoriali»; il suo gesto registico è teso in direzione di «una ridefinizione dello statuto dell'immagine filmica - stando a quanto sostenuto da Gianni Canova, che va - nella direzione del meticciato e dell'ibridazione». Questo comporta che il cinema di Zemeckis (caratterizzato da un'indomita originalità espressiva e formale che corre sottotraccia ad una patina neoclassica) possa apparire all'occhio inconsapevole esageratamente posticcio, più reale del vero, che spesso sembra stupido: basti pensare agli artificiosissimi fondali del deserto nelle sequenze d'apertura di quest'ultima regia (cortocircuito tra opposti: vero e falso, riproduzione fotografica e digitale), in cui siamo catapultati attraverso una struttura ricorrente, rintracciabile in larga parte della filmografia di Zemeckis, il plongée: c'è sempre qualcosa che volteggia nei suoi film: la piuma bianca in Forrest Gump; il biglietto del treno in Polar Express; in Allied è il comandante di aviazione franco-canadase Max Vatan, paracadutato a Casablanca per incontrare la combattente della Resistenza Francese Marianne Beausejour; i due dovranno infiltrarsi, come spie, nelle linee nemiche per eliminare un gerarca nazista. Mentre in Vatan riconosciamo i tratti tipici dell'idiota, configurazione paradigmatica del cinema zemeckisiano (quanto scritto da Slavoj Zizek in Il grande altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa a proposito di Forrest Gump può essere ripreso per descrivere il personaggio interpretato da Brad Pitt: «un sempliciotto benedettamente innocente con un "cuore d'oro", che esegue l'ordine dei suoi superiori senza alcuna esitazione ideologica né devozione fanatica. Un testimone passivo e/o partecipe di grandi battaglie storico-politiche di cui non prova neanche a capire il significato»), Marianne è una figura sfuggente, imprendibile, doppiamente falsa, che ricorda quella vacillante e sparpagliata di Arkadin o Charles Foster Kane: come loro, l'immagine che dà di sé è una vertiginosa costruzione di rappresentazioni simulate che impediscono di stabilire un livello incontrovertibile di realtà. Possiamo dire che Marianne sia fatta della stessa sostanza dei segni: proprio come le immagini di questo film (che nascondono la propria struttura per proporne un'altra del tutto falsa) è essa stessa un'illusione, è un'apparenza temporanea e inesistente.
A ben vedere la sprovvedutezza di cui parla Zizek (tralasciando la lettura ideologica che la sostanzia) può essere rintracciata anche nel cinema di Welles; come ben riassunto da Tony D'Angela i personaggi dei suoi film «sono degli ingenui (La signora di Shanghai), degli sciocchi ranocchi (Rapporto confidenziale), dei somari da prendere per il naso (Otello), delle vittime di macchinazioni (Il processo) [...]. Molti cercano la verità ma sono giocati dalla menzogna di cui non sono nemmeno artefici ma solo spettatori. Michael O'Hara (The Lady from Shanghai) e Van Stratten (Mr. Arkadin) sono creature disorientate e frastornate, raggirate e incastrate in un complotto». Che il cinema di Zemeckis sia imparentato con quello wellesiano appare evidente da come anche questo si muova in direzione della scomposizione del tempo e della molteplicità dei punti di vista (su tutti Ritorno al futuro - Parte II), pur tenendo sempre ben salda la componente affabulatoria; dove per affabulazione non bisogna intendere semplicemente il narrare ma, in maniera più ampia, l'invenzione favolosa, la costruzione più o meno inverosimile. In maniera ancora più marcata rispetto a Forrest Gump, anche in Allied si afferma una concezione della vita come rappresentazione: qui il fatto che il ricordo si crei nel corso del suo racconto diviene materia stessa del film, dando quindi origine ad un allucinatorio gioco di specchi. Siamo difronte ad una simulazione, alla visione di una visione che rimbalza; e simulare, scrive Gianfranco Bettetini, «significa anche fingere, ingannare, mentire». Ha visto bene, quindi, Giulio Sangiorgio che sulle pagine di Film Tv ha scomposto il titolo come fosse una sciarada: Allied, che significa "alleato", diventa All-lied: una bugia totale, un gigantesco inganno. Un'operazione che fa del lavoro di Zemeckis il riflesso di quel testamento poetico che è F for fake, un film che, stando alle parole dello stesso autore, «parla di raggiri, di frodi e anche di bugie» cercando però di renderle reali. «Quella che noi, - dice Welles nel finale (e nulla ci vieta di includere in questa evocata pluralità lo stesso Zemeckis) - ciarlatani di professione, cerchiamo di spacciare per verità, temo che la parola si un po' pomposa, è l'arte. Lo stesso Picasso disse che l'arte è una menzogna che ci fa capire la verità».