Drammatico, Recensione

ALLE CINQUE DELLA SERA

Titolo OriginalePanj é asr
NazioneIran
Anno Produzione2003
Durata105'
Sceneggiatura

TRAMA

Al crollo del regime talebano un anziano carrettiere lascia una Kabul distrutta. Lo accompagnano la nuora e il suo bambino, oramai moribondo per gli stenti, e la figlia che sogna di diventare Presidente dell’Afghanistan.

RECENSIONI

Il cinema iraniano in questi ultimi anni ha regalato autori e film di grandissimo rilievo dimostrando originalità e carattere oltre ad una poetica peculiare. Negli ultimi tempi però lo smalto sembra mancare un po' a tutti: Kiarostami cade nella pornografia del dolore (Abc Africa, brutto sul serio), Panahi toppa al terzo film (Il cerchio, mediocre leone veneziano di pochi anni fa), Makhmalbaf padre si è ammosciato da un bel po' e la sua figliola Samira, elevata frettolosamente all'altare autoriale dopo La mela e l'incensato (ma perché?) Lavagne, da ammosciare non può vantare davvero molto (della seconda rampolla, solo quindicenne, non so nulla: a Venezia il suo film non ho voluto vederlo, con buona pace della neonata factory). Alle cinque della sera, che esce in Italia sulla scorta del Gran premio della Giuria all'ultimo Festival di Cannes, non aggiunge dati confortanti al quadro attuale. La semplicità degli assunti, dato di un'intera cinematografia che un tempo ci incantava, oramai è piegata alle ragioni di una tesi, dell'esposizione di un fatto: la regista ci vuole dire di una situazione e lo fa attraverso la voce di queste donne che, tutte, sanno parlare e sanno cosa dire (e lo dicono, madonna se lo dicono: non fanno altro che dirlo); di qui sciorinate a valanga  sulla condizione della donna in Afghanistan, il regime dei talebani, la storia di un paese, e poi la religione, la poesia (Garcia Lorca, richiamato pretestuosamente), un po' di educazione civica e un po' di geografia: nel sussidiario di Samira non manca davvero nulla, quante cose che riesce a raccontarci, quante informazioni riesce a darci. In un film che sembra andare chissà dove per approdare a nulla, si tenta anche il risvolto brillante (con tanto di retrogusto amarognolo di prammatica: la scena, pessima, del soldato francese), si sottolinea fino alla nausea qualche dettaglio (le scarpe col tacco: la marca emancipatoria della protagonista) e si gonfia di retorica e di elegia dolciastra il resto. Di puro questo cinema non ha davvero nulla: il candore che paventa questo compitino edificante è falso come Giuda e la sua didascalia cosciente e controllatissima. Il burka è una cosa orribile e non vogliamo vederlo indossato dalle donne di quella parte del globo ma se andasse a coprire qualche macchina da presa non scrivetemi per aggiungere la mia firma a qualche appello.