Come nel caso del trittico delle Mille e una notte firmato qualche anno fa, Miguel Gomes, insieme a Maureen Fazendeiro, realizza anche ora un’opera dettata dall’urgenza della congiuntura presente. Là la crisi economica del 2008 e i suoi interminabili postumi, qui la pandemia.
I “lockdown movies” cominciano ad affacciarsi sulle scene festivaliere con una certa frequenza, rischiando non di rado una certa banalità. Rischio che sulla carta non era assente neanche qui, visto che l’intento che informava trasparentemente il soggetto (le casuali e spontanee interazioni di tre giovani durante 21 giorni di lockdown in una tenuta rurale + le vicissitudini della troupe che li filma, che è poi la vera troupe di Diarios de Otsoga) era quello di osservare il dischiudersi delle ordinarie epifanie del mondo sensibile una volta che il tempo, liberato dalle drammaturgie della vita attiva, si sospende e si fa bolla. In operazioni del genere, il rischio è che queste ordinarie epifanie (un angolo di giardino illuminato in un certo modo, la seducente atmosfera pomeridiana di un interno in penombra, una cameriera che “fotobomba” le riprese e che distrae la macchina da presa etc.) vengano messe su una sorta di piedistallo, stucchevolmente isolate dal continuum del tempo e dunque inficiate da una sensazione di irrealtà di ritorno. Ma come restituirle al continuum del tempo senza ricadere nel determinismo per il quale ogni momento è causato del precedente e causa il successivo?
La risposta di Gomes e Fazendeiro, difficilmente ignari della ricca tradizione pittorica iberica sulle tele e sugli schermi (viene in mente, fra gli altri, El sol del membrillo di Victor Erice), è semplice ed efficace: invertire l’ordine sequenziale. Il montaggio comincia il ventunesimo giorno, e a ritroso si arriva al primo. L’effetto precede la causa e quindi, nel momento in cui appare, appare necessariamente come qualcosa di diverso da un semplice risultato di una causa (semplicemente perché la causa non l’abbiamo ancora vista). Un personaggio dice una certa frase: in uno dei segmenti successivi, relativo dunque a un giorno cronologicamente precedente, risentiamo la stessa frase – a propria volta ripetuta di lì a poco nel medesimo segmento. La prima volta in cui qualcuno l’ha proferita non è né la prima né l’ultima volta in cui noi la udiamo – ma sta fra l’una e l’altra.
Questo, in soldoni, il cuore “filosofico” del film: l’origine non è l’origine (come vorrebbe una prospettiva, diciamo così, essenzialista), ma non è nemmeno completamente un effetto a posteriori della ripetizione (come vorrebbe una prospettiva, diciamo così, decostruzionista). L’origine è “tra”, e coincide con la relazione tra elementi; è, in altre parole, una questione di spazio e non di tempo. Dunque le epifanie trovate E costruite da Gomes e Fazendeiro (che dedicano un bel po’ di screen time ai personaggi che, letteralmente, costruiscono un piccolo capanno in giardino) non sono oggetti su un piedistallo: sono indici visuali di un “non-so-che” che fotogenicamente sta dentro le inquadrature e che non è riducibile a quello che vi si vede, una sorta di impalpabile grandezza negativa determinabile solo in relazione ad altri frammenti disposti in un punto diverso della cronologia, che però a propria volta rimandano ad altro per trovare piena determinazione.
Si tratta, insomma, di un dispositivo felicemente “centrifugo”, per nulla cerebrale ma fondato molto materialmente su ciò che in ogni inquadratura o scena “epifanica” manca per essere una vera epifania, e che tuttavia può dirsi epifania proprio in virtù di questa mancanza. Nelle inquadrature, o nei fraseggi di montaggio a raggio comunque sempre corto, sentiamo qualcosa di esteticamente rilevante ma incompiuto, e la cui parziale incompiutezza “chiama” l’incompiutezza delle altre inquadrature, piani, scene etc.: è in ultima analisi questo carattere “centrifugo” che giustifica l’ampio ricorso al metacinema, con i registi e i tecnici che entrano in campo, dirigono gli attori, montano polemiche di metodo relative alle riprese etc. Non si tratta di un gioco di specchi realtà-finzione, ma della logica conseguenza di un approccio all’epifania visuale che più cerca di circoscrivere l’epifania e più si vede costretto ad allargare centrifugamente il quadro – fino appunto a raggiungere la macchina-cinema regolarmente confinata nel fuoricampo.
Dai tempi di Aquele querido mes de Agosto (2008), in cui Gomes sperimentò per la prima volta questa specifica forma di metacinema, il regista portoghese ha evidentemente acquisito piena consapevolezza della propria prassi di autore, e della propria immagine di autore. In Diarios de Otsoga infatti Gomes non esita a mostrare in campo, oltre che se stesso, la palese confusione di idee e di intenti con cui ha affrontato il film, una vaghezza autodichiarata e quasi, benevolmente, un po’ cialtrona, di cui gli attori non mancano di dirsi educatamente indispettiti, oltre che disorientati. Questa, infatti, è stata la linea del cinema di Gomes (anche in termini di “marketing autoriale) dopo Tabù (2012): piazzarsi nel punto della tensione tra la vaghezza di intenti e l’urgenza della contingenza storica a cui il film si lega.
Contingenza ben presente anche qui, e trattata in modo politico oltre che (come accennato più sopra) estetico-filosofico. Il climax del film è il momento inaugurale delle riprese: un addetto sanitario inviato dalla film commission portoghese per illustrare le misure anti-Covid che rendevano possibili le riprese. A un certo punto, il mitico Vasco Pimentel (ingegnere del suono di una caterva di film portoghesi) lo interrompe con un lunghissimo, sconclusionato monologo sulla marmellata in frigo che non sarebbe sufficiente per le colazioni, sullo scarso successo delle mailing list attraverso cui prenotare la propria colazione, e via delirando. Si tratta certamente di uno dei momenti più frontalmente politici visti al cinema di recente: non si tratta affatto di contestare le misure di contenimento della pandemia (e chi, come uno dei tre protagonisti, viola il lockdown per andare a fare surf da solo viene duramente redarguito), ma soltanto di prendere coscienza del rischio intrinseco allo stato di emergenza, il rischio di modellare il proprio tempo e dunque il proprio essere a un complesso di dati lineare, monitorabile, esclusivamente quantitativo. Diarios de Otsoga ci ricorda invece il carattere centrifugo e qualitativo del tempo (e dunque dell’essere umano), e tanto più tale quanto più cerchiamo di comprimerlo in una circoscrivibile, identificabile epifania.