TRAMA
Un gruppo di amici si ritrova per una gita in mare. Presi dall’euforia, una volta arrivati al largo si gettano tutti in acqua per un bagno, dimenticando di abbassare la scaletta di risalita dell’imbarcazione. Tornare sullo yatch, dove riposa la piccolissima figlia di due ragazzi del gruppo, si rivelerà particolarmente arduo.
RECENSIONI
E' il 2004. Un piccolo film, girato con pochi mezzi ma notevole capacità di gestione di tempi e spazi, riesce a ritagliarsi una visibilità globale. In Open Water si racconta con efficacia l'incubo di una coppia dimenticata in mare aperto dopo una immersione subacquea. Difficile pensare a un seguito per uno spunto già striminzito per un lungometraggio. E infatti la produzione tedesca Adrift (letteralmente "alla deriva"), presentata in anteprima mondiale al "Fantasy FilmFest" di Berlino, non lo è. È un film autonomo, che solo a posteriori la distribuzione ha deciso di abbinare, per evidenti ragioni promozionali, al piccolo caso Open Water. La furbata potrebbe suonare irritante, ma a ben vedere c'è un'effettiva affinità tematica tra i due film che, pur nella diversità dello stile adottato (simil tv-verità contro ammiccamenti patinati), finisce per giustificare la strategia del marketing. Lo schema narrativo prevede infatti un andamento similare. Dopo una neanche troppo sbrigativa presentazione dei personaggi, che si trovano a condividere una rimpatriata tra vecchi amici sullo yatch di uno del gruppo, si passa allevento scatenante: un bagno al largo, tra tuffi, risate e scherzi, che si tramuta in tragedia quando viene a galla la consapevolezza che nessuno si è preoccupato di calare in mare la scaletta per la risalita. Come già nell'opera dell'americano Chris Kentis, tutto il film si basa su una sola idea, apparentemente esile e invece potente, che il tedesco Hans Horn riesce a condurre con pochi guizzi ma indubbia professionalità. Il perdurante ammollo dei personaggi diventa così nuovamente il centro dell'azione e la regia, che ha il pregio di non ammorbare lo spettatore con sgranature e traballii in cerca di verità (qualche ovvia desaturazione solo nei flashback), riesce a creare unimmediata empatia con il pubblico. Difficile sottrarsi all'angoscia di una situazione tanto assurda quanto ipotizzabile, con la salvezza a pochi, irraggiungibili, centimetri. A favore del film anche il tentativo della sceneggiatura di non scadere nel facile effetto. Niente squali o pericolosi contatti con la fauna marina, ma solo il degenerare dei rapporti personali e delle condizioni fisiche dei personaggi. L'altro lato della medaglia rischia invece di impantanarsi nella necessità di trovare una chiusa dignitosa e differente per ogni protagonista e nella misura, a stretto confine con lo stereotipo, del materiale umano disponibile. Un'ombra moralistica si posa poi sulla scansione delle vittime, così come sembra assurdo che si debba ancora ricorrere a un trauma, e al suo superamento, per dare consistenza all'evoluzione del narrato. Ma sono difetti che alla luce della efficace messa in scena passano in secondo piano. Tanto che un senso di estenuante apnea ha modo di aprirsi un varco non disprezzabile fino a squarciare la coriacea indifferenza dello spettatore, anche quello più scafato.