TRAMA
La vita di tutti i giorni degli inquilini di un condominio situato sul confine tra Tel-Aviv e Jaffa.
RECENSIONI
Siamo in una fase del conflitto in cui le due parti dominano tutto il panorama dell'informazione: il conflitto israelo - palestinese consuma i due terzi dell'informazione internazionale: non si permette che si parli dell'Africa, poche notizie anche dall'Asia... Sempre israeliani e palestinesi: ci stiamo intossicando. Si sente una specie di tristezza distante se una sera si parla di qualcosa di diverso. Anche se ci combattiamo abbiamo creato questa lobby, questa coalizione molto forte che prevale nel paesaggio di tutti i notiziari serali. Ho detto molte volte che ciò non è sorprendente perché ci troviamo di fronte a una forte soap opera dei media nella quale ci sono i cattivi e i buoni che cambiano di posto ogni sera. E si scambiano le posizioni. E possono continuare a riempire gli schermi mentre nell'intermezzo di questo feuilleton continuano a vendersi le lavatrici.
Amos Gitai in conferenza stampa a Venezia 60
Amos Gitai con Alila decide di opporsi alla crescente mitizzazione del conflitto mediorientale, lasciandolo volutamente sullo sfondo, e di guardare al vivere quotidiano, a fatti importanti e fatui di un gruppo di persone: lo fa con un'ironia che non ci saremmo aspettati (in conferenza stampa cita addirittura Lubitch) e, in una sorta di Short cuts israeliano, raccoglie frammenti di vita a Tel-Aviv, componendo il suo mosaico minimalista nel tentativo di fornire una disincantata rappresentazione della modernità, mettere in scena un balletto esistenziale molto lontano dai canoni occidentali, impregnato sì di tragedie ma da queste mai sopraffatto. Siamo in un condominio abitato da personaggi dai caratteri inconciliabili che intrecciano i loro rapporti in modo diverso e in cui sembra abolirsi qualsiasi intimità (Avevo voglia di insistere su una sensazione di promiscuità quasi "incestuosa"), in cui tutti sanno tutto di tutti, e che costituisce una sorta di cellula metaforica di una realtà più estesa, quella di una città e di una nazione nelle quali le storie di ciascuno sembrano invadere quelle degli altri, mentre le radio vomitano notizie di nuovi massacri. La scelta di Gitai di un film sorridente non abolisce comunque il dato da sempre presente nella sua filmografia: la convivenza di un discorso sulla contemporaneità mischiato a quello sulla memoria, elementi che si concentrano in questo microcosmo sul quale carrella con scioltezza la macchina da presa di Renato Berta (il film si compone di lunghi piani sequenza che consentono di guardare con grande omogeneità all'interno di una realtà che, al contrario, si presenta disomogenea e profondamente frammentata). Accanto alle storie di Gabi (travestita - letteralmente: il disvelamento finale lo conferma - da femme fatale) e del suo amante Hazi, della vicina poliziotta (un concentrato di eccessi in odore di Almodovar), di Mali e Ezra alle prese con il figlio disertore, Gitai si sofferma anche su realtà di cui, nell'Israele in conflitto, non si parla mai (i lavoratori stranieri abusivi costretti al rimpatrio) nello scoperto sforzo di allargare lo sguardo a una situazione generale, uno sguardo che dunque non si risolva nell'occhiata unilaterale sulle bombe e sulla guerra ma che vada a scovare sfaccettature, contraddizioni, sofferenze e gioie di un popolo.
Tratto dal romanzo Returning lost love di Yehoshua Kenaz, Alila è un film che ci presenta un Gitai diverso e smaliziato che dietro la scelta di un film semplice e senza aggressività mostra la volontà di valorizzare la normalità ormai dimenticata di una terra, facendo confluire solo nel magnifico finale le piccole storie private e le grandi vicende pubbliche.
I titoli iniziali sono recitati dallo stesso Gitai al quale ci associamo nell'augurare al pubblico che deciderà di vedere il suo bel film la buona visione.
