TRAMA
Anno 2142. Una sonda spaziale della Weyland-Yutani trova il relitto alla deriva della USCSS Nostromo e raccoglie, dallo spazio circostante, un bozzolo contenente lo Xenomorfo che ne ha sterminato l’equipaggio…
RECENSIONI
C’è una frase in Alien: Romulus che sembra una dichiarazione d’intenti anti-teorici da parte del suo regista Fede Álvarez: «I don’t understand cloning at all» (non so niente di clonazione). Come a dirci: inutile complicare le cose, ragazzi. E quindi via dall’esistenzialismo di Prometheus e Alien: Covenant con l’obiettivo di drenare ogni velleità da fantascienza adulta a favore della componente più immediata di Alien, di isolare quegli elementi che lo rendono un’esperienza (sigh!) capace di dire sempre la sua al botteghino, un giocattolone buono per tutte le stagioni e rivolgersi a uno specifico target di pubblico (giovane, nerd, gamer) perché, in fondo, questo volete, ragazzi: citazioni sparse dagli altri film del franchise o, perché no, da Interstellar, ammiccamenti al mondo del videogame – evitiamo, però, di parlare di gamification, perché anche se la sequenza dell’acido sembra ricopiata da un gioco che alla saga di Alien deve molto come Dead Space, il termine ha tutt’altro significato – e, soprattutto, mostri. Mostri, mostri ovunque: che siano macchine, mutanti, facehugger. Proprio a partire dai mostri, il doppiaggio italiano ci viene involontariamente incontro per spiegarci come questa naïveté sfacciata, rivendicata (Álvarez alla rivista Cinemateaser: «Se voglio essere un regista onesto, devo capire perché un film funziona davvero e non farmi trascinare dalla dimensione intellettuale del soggetto») è perfettamente consapevole, studiata, certosina, paracula, e lo fa traducendo una battuta dell’androide Andy - «Why don’t monsters eat clowns? Because they taste funny» - con «Sai perché i mostri vanno al museo? Per vedere le mostre».
Álvarez è ben meno ottuso (o tamarro, fate voi) di quanto il film vorrebbe farci credere e questa frase ce lo svela inconsapevolmente: il regista, che ha curato la sceneggiatura assieme al sodale Rodo Sayagues, sa alla perfezione che il suo soggetto di possibili implicazioni teoriche ne avrebbe eccome, solo che si diverte a disattenderle tutte, a giocare a fare lo scemo. Sa benissimo che tornando sulla scena del delitto-madre, facendo iniziare il film con il recupero del bozzolo dello xenomorfo dalle rovine di quell’astronave Nostromo (quasi fosse il Titanic di James Cameron) su cui nel 1979 si diede inizio all’incubo col capostipite di Ridley Scott, la saga si trova a lavorare con le sue stesse macerie, con un relitto che non è solo una nave spaziale me è anche un vero e proprio deposito cinematografico, una sorta di museo dell’orrore in cui si è conservata una visione angosciosa che è lì, pronta per essere riattivata. Potremmo tranquillamente andare dalle parti dello Spielberg di Ready Player One, quando con la sequenza-gioiello ambientata nell’Overlook Hotel, papà Steven ci parlava della capacità del cinema digitale e delle nuove tecnologie di riattualizzare, riattivare secondo nuovi percorsi e persino profanare la storia del cinema, addirittura ipotizzando la possibilità di farci immergere al suo interno e interagirvi. Alvarez non è certo Spielberg, ma è comunque uno che con la storia del cinema horror già ci ha giocato con il remake di La casa ed è perfettamente consapevole che la sua potrebbe essere una potenziale operazione teorica che però preferisce ridurre a esercizio di genere. La Nostromo viene quindi usata come mero espediente narrativo da cui prelevare lo xenomorfo, Alien, e dargli nuova vita. La scelta del titolo, Romulus, ci parla allora delle sue stesse logiche produttive, di una serie che, impossibilitata ad andare avanti secondo le idee del suo creatore, si trova quasi costretta a ripiegare su se stessa, a tornare al suo mito fondativo, alla sua fonte archetipica, e da lì ripartire per provare a trovare linfa vitale ora che il franchise è passato in mano a Disney dopo la grande acquisizione di 20th Century Fox nel 2019 (e in questo persiste quindi nel continuum di una saga che rappresentava per Gianni Canova “un’innovazione morfologica e produttiva” a ogni nuovo capitolo). Questa è quindi una storia di Alien e di un suo clone, di Romolo e Remo, di döppelganger e gemelli malefici, di copie che sanno di non poter essere come l’originale (ancora il regista «Non ci sarà mai niente di spettacolare e unico come il primo Alien»). E quindi non si può andare nel museo-Nostromo – deflagrato, imploso, capillarizzato in mille pezzi (e film?) – ma si segue un gruppo di ragazzi-operai accompagnati da un androide malfunzionante sulla stazione spaziale Renaissance (di nuovo: rinascita e quindi ri-fondazione) dove sperano di utilizzare delle capsule criogeniche per fuggire su un pianeta alla ricerca di una vita migliore. Ad attenderli, qui, però, c’è sempre lo stesso incubo, anche se leggermente diverso, e sempre lo stesso clone, anche se leggermente diverso: quello del recentemente defunto Ian Holm che nel primo capitolo interpretava Ash, l’androide che voleva conservare lo xenomorfo per portarlo sulla terra, e che qui, nei panni di Rook, ha piani praticamente identici, come in un reboot non annunciato. Interessante è notare come la ricostruzione del volto di Holm sia avvenuta grazie a un misto tra CGI e deepfake, intelligenza artificiale, insomma, la copia posticcia di un originale permessa dalla commistione tra computer grafica e algoritmi. Questo non è Ash, è Rook. E quello non è Holm, è il suo deepfake. Quindi, forse, Alvarez di clonazione qualcosina ci capisce pure. Sa che tra l’originale e la copia qualcosa si perde, che resta solo la superficie. Ma va bene così, perché in fondo, al museo, ci si va per vedere le mostre o i mostri che siano, e nient’altro.