
TRAMA
Polonia, 1945. Mathilde, un giovane medico francese della Croce Rossa, è in missione per assistere i sopravvissuti della Seconda Guerra Mondiale. Quando una suora arriva da lei in cerca di aiuto, Mathilde viene portata in un convento, dove alcune sorelle incinte, vittime della barbarie dei soldati sovietici, vengono tenute nascoste. Nell’incapacità di conciliare fede e gravidanza le suore si rivolgono a Mathilde, che diventa la loro unica speranza.
RECENSIONI
Nel corso della sua carriera, ormai più che ventennale, Anne Fontaine si è costruita la fama di regista di donne. Ha diretto un variegato e notevole panorama di attrici: Miou-Miou, Maggie Cheung, Fanny Ardant, Emmanuelle Béart, Isabelle Carré, Jeanne Balibar, e più recentemente Audrey Tautou, Isabelle Huppert, Naomi Watts e Robin Wright. Ha messo in scena storie di figure femminili che, a vari livelli, reclamano indipendenza di pensiero e azione rispetto ai codici imposti della norma. Se questo vuole sicuramente essere il nucleo concettuale del suo cinema, nella pratica si è però concretizzato spesso in forme ariose e annacquate. Si annovera nella sua filmografia una collezione di opere medie dal respiro piuttosto corto: Coco avant Chanel – L’amore prima del mito (2009), Il mio migliore incubo! (2011), Two Mothers (2013) e Gemma Bovery (2014), solo per citare gli ultimi titoli. Stupisce quindi in positivo il suo ultimo lavoro, Agnus dei, per il rigore dello sguardo che si traduce in una narrazione tesa, compatta, dura come il sasso (fatto salvo un inciampo zuccherino sul finale). Non ambisce alle vette iperuraniche di chissà quale cinema autoriale, ma bilancia in maniera ineccepibile coerenza tematica e fluidità narrativa con ambizioni etiche ed estetiche non trascurabili.Della sceneggiatura – scritta a più mani, fra cui quella di Pascal Bonitzer – si apprezza la volontà di non votarsi (o almeno non unicamente) alla declinazione che sarebbe più lecito attendersi, ovvero ad un’analisi sulla crisi della fede dopo un atto di ferocia sconvolgente. Realmente accaduta sul finire del secondo conflitto mondiale, la storia di un monastero di clausura polacco violato dalle armate russe e delle suore rimaste incinte in seguito agli stupri, viene affrontata concentrandosi principalmente sull’ostinazione delle religiose a non aprirsi al mondo. Le monache sono pronte a tutto, anche alla morte, pur di non aprire le porte del convento e macchiare di “vergogna” il supposto candore della loro fede.
Agnus Dei si fa dunque studio di un universo consapevolmente sigillato, all’interno del quale esplode l’orrore senza che il mondo esterno lo possa o lo debba sapere. È quindi interessante notare come questo orrore venga in qualche modo negato, nascosto e soppresso prima di tutto fra le stesse monache che hanno subito violenza, in un tormentato ciclo di rimozione a livello della propria coscienza individuale. È il feroce rifiuto della maternità il vero elemento orrifico del film, nel suo palesare un profondo contrasto etico fra misericordia della fede e indole emotiva, individuale, quasi egoistica. Il caso della monaca che partorisce senza sapere di essere incinta (condizione medica rara e disperata) è l’apice di questo percorso di auto-negazione. In questa ostinazione che lotta pervicacemente per mantenere la propria supposta innocenza in un regime di autarchia spirituale, sembra quasi che il film voglia suggerirci un parallelo con le future strutture degli stati comunisti dell’Europa orientale, che nel tempo della storia già incalzano e bussano alle porte del convento.
Fiancheggiata dalle eccellenti Agata Buzek (già vista in Corpo estraneo di Zanussi e nel Nightwatching di Greenaway) e Agata Kulesza (Ida), la giovane promessa del cinema francese Lou de Laâge (L’attesa) è convincente nel ruolo della dottoressa francese eccezionalmente ammessa nel convento. È attraverso la sua prospettiva rigorosamente laica che Anne Fontaine affronta la storia. Ne deriva uno sguardo lucido e rispettoso, clinico in certi passaggi, ma sempre umanamente presente. Ed è in questo senso che la configurazione estetica del film ne rafforza l’impostazione etica e narrativa, grazie soprattutto alla miracolosa fotografia della grande Caroline Champetier (collaboratrice abituale di Rivette, Straub e Huillet, Akerman, Godard, Doillon, Jacquot, Garrell, Desplechin, Téchiné, Lanzmann, Carax), veicolo perfetto di un’immagine che nel ritratto della gelida terra polacca suggerisce tanto la durezza dell’orrore quanto la monumentalità del turbamento umano.
