TRAMA
Maggio 1734, Alfonso di van Worden, giovane ufficiale Vallone al servizio di Re Carlo, ha ricevuto l’ordine di raggiungere il suo reggimento a Napoli nel più breve tempo possibile. Nonostante Lopez, suo fedele servitore, cerchi di dissuaderlo dall’attraversare l’altopiano delle Murge, perché infestato da spettri e demoni inquietanti, si mette ugualmente in cammino.
RECENSIONI
Il testo ottocentesco di partenza, Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki, scritto in francese, sorta di Decamerone alternativo (anche qui il tempo è scandito da dieci giornate) che propone un immaginario fluido che sembra poter proliferare all’infinito, affascinò, tra gli altri, Buñuel (si pensi solo al modo in cui le storie germinano in film come Il fascino discreto della borghesia, La Via Lattea o Il fantasma della libertà). Il film di Alberto Rondalli si immerge nel meccanismo romanzesco a scatole cinesi: narrazioni si inseguono e si specchiano, passando attraverso mitologie e spirali oniriche. Mentre visioni e verità si intrecciano e tanti personaggi-miraggi (persino il diavolo fa capolino) si avvicendano, si finisce costantemente per tornare al filo principale, quello del viaggio iniziatico e simbolico del giovane ufficiale Alfonso, a sua volta incorniciato nel primo livello, dichiarato nell’incipit, quello del conte Potocki che sta scrivendo la sua opera.
Agadah (termine cabalistico che si può tradurre, per l’appunto, con il verbo “narrare”) si apprezza per il coraggio di una scelta radicale: è un’operazione di stile, infatti, orgogliosamente inattuale, produttivamente bizzarra, letteraria e colta, in cui echeggiano De Oliveira, Botelho e Ruiz, ma che della sua maniera si bea, a tratti, fino alla rigidità accademica, forte di una messa in scena tanto impeccabile quanto monocorde.
