TRAMA
Tra le rovine, nel pomeriggio. La conversazione tra un uomo che sta morendo e la persona da lui più amata.
RECENSIONI
Ad un certo punto, in Francofonia, Alexandr Sokurov dice «Un medium sa quando assopirsi. Lasciamolo dormire.» Parole rivelatorie sul senso delle immagini in un momento storico segnato dalla scomparsa di un certo modo di vedere, pensare, e interpretare il cinema, e della modalità specifica in cui “quel” cinema aveva configurato il mondo. Con Na ri xiawu (Afternoon) Tsai Ming-liang compie la stessa riflessione strutturando però il discorso attorno al proprio percorso filmografico. Lo spazio in cui avviene questa lunga conversazione tra lui e Lee Kang-Sheng, l'interprete di tutti i suoi lavori (una casa ridotta in macerie cinta dalla foresta) ricorda subito quello dove terminava Jiaoyou (Stray dogs), che stando alle dichiarazioni dello stesso Tsai, rappresenterebbe il suo ultimo “film”. Tutto ciò che è venuto dopo, sia pure stilisticamente in continuità con quanto è stato, è, per l'autore, qualcosa di concettualmente diverso, volutamente svincolato dalle gabbie dell’esercizio cinematografico, che si pone in uno spazio potenzialmente fecondo di riscrittura dei codici: sia Journey to the West che No no sleep, anche per il fatto di non corrispondere alle durate canoniche imposte dalla produzione in previsione della distribuzione, sono lavori immediatamente circolati in rete. Una scelta che dimostra come il regista sia consapevole del fatto che tempi, luoghi e strumenti per relazionarsi con le immagini audiovisive si siano moltiplicati e spostati rispetto alle ritualità tradizionali; che la cornice obbligata della sala cinematografica sia ormai scardinata: non esistono soglie, non ci sono più precise circostanze deputate alla visione.
In Na ri xiawu Tsai prosegue, inarrestabile, il lavoro condotto sulla durata di ripresa, che arriva ad un punto di non ritorno, alla più completa immobilità: un unico piano fisso, in profondità di campo, quasi ininterrotto. Ed è proprio questa scelta registica a permettere un dialogo altrimenti impossibile, che allo stesso tempo porta l'autore a rispecchiarsi nelle dinamiche relazionali del suo cinema: è la condivisione del quadro a stabilire l’incontro fra i soggetti, non certo lo scambio verbale, in realtà quasi assente: tanto Tsai è verboso, verrebbe da dire monologante, quanto Lee resta chiuso nella sua immanente laconicità. Così come non ha mai cercato di svelare l'interiorità dei suoi personaggi, allo stesso modo il regista non prova neppure a sfidare la resistenza alla parola del proprio interprete, ne rispetta il mistero, cosciente del fatto, come del resto da lui stesso dichiarato, che: «se non ci fosse stato lui / Non ci sarei stato io / Non ci sarebbero stati i miei film». Tsai e Lee offrendosi, come mai prima d'ora, alla macchina da presa ci vogliono testimoni della loro relazione: un rapporto che trascende qualsiasi possibile definizione, lungo vent'anni, trascorso fianco a fianco, capace di creare un'opera, probabilmente irripetibile, segnata da una costante e affannosa azione di compenetrazione e arricchimento tra arte e vita. Tornano a mente allora le parole di Pasolini (che questa inestricabile commistione l'ha sperimentata, dichiarata, teorizzata) quando scriveva: «In ogni autore, nell’atto di inventare, la libertà si presenta come esibizione della perdita masochistica di qualcosa di certo. Egli nell’atto inventivo, necessariamente scandaloso, si espone – e proprio alla lettera – agli altri».