TRAMA
Lui e Lei in violenta crisi coniugale, sotto gli occhi del figlio.
RECENSIONI
Uomo, Donna, Bambino
You are my sunshine / My only sunshine / You make me happy/ When the skies are grey.
Quale agghiacciante crudeltà nell’opera di Patrick Tam: a sentimento sepolto, la coppia si scanna inchiodata nella casa/ring (letterale: volano calci e pugni), mostrando i corpi smorti da imposte semichiuse - il bimbo si muove, è l’unico vivo -, scolpiti da mefitici carelli a rientrare e annegati nello sguardo umido dell’infanzia. L’autore spara un’armamentario visivo scatenato, applicandolo su materia già trattata, e per un’ora intera tocca con mano il capolavoro (sì, proprio lui); la messinscena, fatta di spigolature fiammeggianti e insopportabili primipiani, dipinge sui volti la dovuta ambiguità (il figlio non vuole liberare la mamma ingabbiata dall’amante), lascia sgomenti la generosità espressiva della cinepresa - come un campo/controcampo può diventare espressionista -, i personaggi, sfollati dalla vita, sono forgiati in poche salienti battute (lui è manesco, lei ha già deciso di lasciarlo), attraverso metafore solari il coltello affonda nella carne: vedere e rivedere la sequenza, magnifica, del bimbo che trascina l’enorme valigia e provare a restarne indifferenti. Il film centra poi il cuore dell’esilio, setacciando la fuga di padre e figlio tra piccoli furti e amplessi nati morti in albergo - Tam cita In the mood for love -, infine imbarcando clandestinamente un calo fisiologico nelle maglie dell’intreccio; al giro di boa questo mostra il lato meccanico, ripassando immancabilmente l’agenda del drammatico, fermo restando sul simbolo leggibile (l’orologio come spago tra livelli temporali) e nelle pastoie di uno snodo emotivamente estorsivo (l’incontro col bimbo malato, la scena più sbagliata del film, che scodella rudemente una concezione dell’infanzia perché cede al richiamo del confronto). Questo magma accumulativo che assorbe il film, sovrapponendo temi e visioni, al passo di prammatica non scorda però di affiancare trovate notevoli di fondo, dalla reazione del bambino dopo l’arresto - taciuta in ellissi e recuperata con un flashback sconcertante - sino all’avvolgente visione fluviale (ponte, limbo e confine) che ci trascina ai titoli di coda. Il regista giapponese, ex montatore di Wong Kar Wai (Days of being wild, Ashes of time), partorisce un gigante di proporzioni complesse e controverse, allevato con furore ipertrofico, senza paura di fissare il melodramma negli occhi sino a spremerli di lacrime. E soprattutto: trovando nella composita disomogeneità una propria distintiva compatezza, finisce assolto da ogni squilibrio interno, risuona sinfonico negli occhi e spesso nelle orecchie e strappa alla Festa del Cinema, finalmente, il suo momento da ricordare.
