Giallo, Poliziesco, Recensione, Sala

ADAGIO

TRAMA

Dopo la morte della mamma, il sedicenne Manuel vive con un padre anziano dal passato criminale, che lo vedeva celebre con il nome di Daytona, ma che ora sembra non starci più con la testa. A sua insaputa, il ragazzo viene ricattato da un gruppo di carabinieri corrotti per una storia di festini dalle ramificazioni politiche ben più grandi di lui.

RECENSIONI

Roma è sull’orlo dell’abisso. È un corpo morente, in decomposizione. Una terra di confine dove l’ineluttabile aleggia con sinistra matericità. In lontananza si moltiplicano i roghi. La corrente elettrica salta di continuo. È estate, la gente suda, ansima, si trascina sfinita. Lo scenario è apocalittico. Stefano Sollima con Adagio chiude la sua ideale trilogia sul crimine, sulla corruzione e la decadenza realizzando forse la sua opera più matura ed espressiva. Il tempo sembra sospeso tra i fasti del passato criminoso dei protagonisti (mai del tutto sbiadito) e il presente (avvolto da una caligine ignota) che fa da contrappunto e cornice alla vicenda. Manuel è un ragazzo di periferia - schiacciato da un padre assente e malato (ma niente nel cinema di Sollima è come sembra) e da una condizione sociale frustrante - incastrato da tre poliziotti corrotti dovrà scappare e tentare l’impossibile per sopravvivere. Daytona, Cammello, Polniuman, invece, sono tre ex criminali piombati casualmente nella vita di Manuel, catapultati dentro un intrigo che li riporta in auge, sul ring per l’ultima volta. Sono sfatti e consunti - zombie senza meta - fuori dal giro da anni, ma sempre appollaiati sul crinale tra bene e male, sopra quel confine che separa la ruvidezza della vita da strada da quella anelata e pressoché irraggiungibile.

Sollima si diverte a mineralizzare e demitizzare i grandi divi italiani (Toni Servillo, Pierfrancesco Favino, Valerio Mastandrea). Li stropiccia, li imbruttisce, li oltraggia. Il suo è un cinema popolare e politico, di nervi e corpi, di muscoli e torsioni (anche narrative) repentine. Adagio è un noir metropolitano, un crime movie disperato che riposiziona i codici del genere e procede dilatando l’azione, sfruttando la temperie dell’anticlimax. Calato dentro un continuo gioco di specchi e disvelamenti, attraversato da una superfetazione in cui convivono la compassione, l’antieroismo, la tragedia greca, mette al centro personaggi già morti, fantasmi che si muovono tra le ombre e le rovine. La Roma di Sollima è inedita, emorragica e tentacolare. Che sia la pioggia fitta di Suburra o la calura asfissiante di Adagio, è sempre la metafora di un mondo che sta per collassare. Gli attori sono tutti straordinari, per mimica, gestica, corporalità. Ma il Daytona di Servillo - boss in “pensione” - merita un discorso a parte. Il suo personaggio viene presentato svanito e senile. Poi di colpo torna ad essere l’uomo ferino che azzanna, colpisce, intimidisce. Di quel vecchietto non c’è più traccia. Capiamo quindi che la sua era una recita, un travestimento. A Servillo basta una camminata lungo un passage per ripristinare la maschera del demente. Da spavaldo fino ad un attimo prima, spettinandosi solo un po’ i capelli e tornando a deambulare, il suo (ex) criminale Daytona ritorna nel buio surrettizio di una sopravvivenza mortifera. Adagio è un film di semitoni, di chiaroscuri, di passi cadenzati che aprono voragini profonde e inquietanti sul rapporto pubblico/privato, sull’imprevedibilità del destino, sull’incombenza della morte.