Drammatico

A SINGLE MAN

Titolo OriginaleA Single Man
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2009
Durata95'
Tratto dadal romanzo omonimo di Christopher Isherwood
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Los Angeles, 1962: George Falconer è un professore inglese di 52 anni che cerca di dare un senso alla propria vita dopo la morte del suo compagno Jim. George indugia nel passato e non riesce a immaginarsi un futuro, ma una serie di eventi e di incontri lo porteranno a decidere se ci sia o no un significato nel vivere senza Jim.

RECENSIONI

A single man è un film sorprendente e molto, molto coraggioso. E’ un film sorprendente perché rappresenta il debutto nel cinema di Tom Ford - geniale stilista che, prima di esordire col proprio marchio, rilanciò nel mondo casa Gucci - con un lavoro molto accurato e cosciente. Coraggioso, perché Ford lo trae da una perla lucente della produzione di Christopher Isherwood, una delle massime penne in lingua inglese del secolo scorso: un romanzo non solo di magnifica scrittura (in Italia, Un uomo solo), ma tutto imperniato sul percorso interiore del suo protagonista che si snoda contemporaneamente a un percorso esteriore che acquista rilevanza intrecciato col primo, col carico di riflessioni che emerge dal pensiero del protagonista, un romanzo straordinariamente difficile da portare sullo schermo e che Ford, anche sceneggiatore, non ha alcuna remora a rileggere, modificare, adattare alla sua idea di film. A stravolgerne il senso, quando necessario, allineando alla chiarezza di idee sul fronte visivo, una determinazione sul fronte della concezione altrettanto stupefacente.
La novella di Isherwood narra di quello che, solo alla fine, si rivelerà essere l’ultimo giorno di vita di George, un professore universitario che vive un’esistenza solitaria dopo la scomparsa del suo compagno: la morte arriva all’ultima pagina del libro, inattesa, e rappresenta la chiusa di una giornata piena di piccoli avvenimenti attraverso i quali si legge a fondo nell’esistenza del suo protagonista. Nelle pagine dello scrittore, insomma, l’unica morte con la quale si confronta George è quella del suo uomo, ed è un confronto che si risolve nella difficoltà di gestire questa assenza, di portare avanti la sua vita di persona oramai sola (in questo senso il titolo inglese è ben più pregnante, avendo la parola single un’accezione più ricca). Il regista, invece, rovescia la questione e fa della morte un’ombra che aleggia sul protagonista fin dall’inizio: dunque il George che disegna Tom Ford è una persona al limite, un uomo che ha deciso di porre fine alla sua esistenza, che ha scelto quel giorno per suicidarsi. Nella nuova ottica gli avvenimenti e gli incontri che si susseguono in questa giornata assumono un doppio significato: non sono soltanto momenti di riflessione, quella del protagonista su un nuovo confronto col tempo presente dopo aver vissuto l’ultimo frangente della sua vita rivolto al passato, ma anche elementi da inserire nel più ampio progetto di morte che lo riguarda e che, tra una titubanza e l’altra, continua ad accarezzare fino alla fine delle ventiquattro ore.
A questa complessa materia Ford dona una maturità di sguardo che lascia stupefatti: si noti la scena della vestizione mattutina, il modo in cui il regista cristallizza, in macro, singoli dettagli perfetti; si apprezzino le variazioni di registro visivo, quei folgoranti cambi di colore che dicono dell’umore del protagonista, di un mondo esterno percepito come freddo e desaturato; i ralenti grotteschi sulle persone che abitano nel vicinato e che significano l’annoiata contemplazione di una vita circostante registrata come vuota di senso e incolore; l’esuberante invenzione scenografica, la fantasiosa concezione degli interni, le porte usate come un sipario che si chiude sui personaggi. Ford trasporta il suo sguardo e il suo immaginario sullo schermo, applica i canoni figurativi che conosce, usa gli attori come modelli, li veste per la sua messinscena (accessori compresi: si guardino occhiali, orecchini, cravatte: tutto il cast, comparse comprese, non ha un tono fuori posto), mettendoli letteralmente in posa, li divinizza (la Moore diventa una sorta di sacerdotessa-icona), fa del romanzo di partenza una base sulla quale erigere il proprio mondo, la propria idea di bellezza: i dettagli del corpo del tennista (mentre si parla della Russia – siamo nella fase cruciale della crisi Cuba-Stati Uniti –) si impongono come frammenti di immagini mentali, sono ombre di un desiderio a lungo narcotizzato; un flashback in bianco e nero che sembra uscito da un servizio fotografico di Herb Ritts ci parla di Jim come di un passato mitizzato col quale si fatica a chiudere; l’incontro casuale col ragazzo spagnolo (che ha l’ apparenza, il portamento e l’atteggiamento di un modello, che si muove consapevole della macchina da presa che lo riprende) è uno spot sulla bellezza, in cui la sessualità non c’entra, c’entra la rinnovata coscienza del professore di poter godere della visione di qualcosa che trova bello – per questo episodio il regista non ha alcun timore a sfoderare uno spudorato cielo rosa -.

Un’invenzione sofisticata, ma senza un’ombra di patinatura, domina l’opera, governata da una scelta di stile consapevole, forte, funzionalizzata al discorso filmico, mai affidata alla figura vuota, imbellettata, fatua. Il prezioso cast (con Firth e la Moore a giganteggiare) fa il resto, operando in un modo perfettamente coerente alle esigenze rigorosissime di una messinscena altrettanto rigorosa.
E Ford risolve con meraviglioso estro tutte le tappe di questo micro viaggio di George, non le sovraccarica mai di sensi, le essenzializza; esse sono sempre fluide, scorrevoli, non si impigliano mai nell’ostentazione di un significato di troppo: l’ incontro con l’amica Charley, che nel testo è una sorta di forca caudina alla quale il professore decide quasi per pietà di sottoporsi, è risolto con leggerezza, portato su una dimensione di disincanto e malinconia che risulta perfettamente intonata all’esigenza dell’autore di rendere il processo a fasi che George sta attraversando nella giornata; l’incontro con lo studente Kenny, nel romanzo reso come episodio molto più complesso e problematico, viene del tutto riconsiderato, tradotto da un lato nell’esteriore ricerca di identità sessuale del ragazzo e, dall’altro, nella considerazione del personaggio come una sorta di figura angelica e provvidenziale che entra nella giornata di George al preciso scopo di salvarlo dal suo intento di morte. George anche grazie a lui riscopre il valore dell’esistenza le cui prove questo giorno gli sta dando di continuo, comprende come tutte le piccole cose che gli sono accadute siano importanti, come certi piccoli dettagli siano quelli che compongono la vita rendendola degna di essere vissuta. Ne riassaggia di nuovo il gusto, godendone. Si riconcilia con se stesso e comprende che non ci sarà nessun suicidio. Ed ecco che, una volta che ha capito di nuovo cosa significa vivere, può, serenamente, morire.

Lontano dal paradiso

Per il suo debutto nel cinema, dopo i fasti nella moda di cui è uno dei nomi di punta, il texano Tom Ford sceglie l’omonimo romanzo di Christopher Isherwood che racconta la giornata di un professore di inglese cinquantenne in cerca di un senso nella vita dopo la perdita dell’amato compagno. La sensibilità di Ford e l’attenzione per la forma sono subito evidenti nella precisione con cui misura i movimenti del suo protagonista, cura la composizione delle immagini non lasciando nulla al caso, sottolinea con opportune scelte cromatiche umori e stati d’animo, calando il presente nella desaturazione dei colori e accendendo lo schermo quando il desiderio, il bello, l’amore per la vita tornano a farsi sentire. Quello che ne esce è il bilancio di una vita in cui solo gli affetti permettono di superare i confini della solitudine e dove ogni gesto, pensiero, obiettivo paiono avere senso unicamente se rivolti a qualcuno in grado di coglierne l’essenza. Un amore così assoluto, possessivo e, diciamolo, soffocante che non ha, nella visione di Ford, il contraltare della quotidianità, della noia, dei momenti bui e manca, alla fine, di carne e di sangue. Tutto appare quindi idealizzato e piuttosto stereotipato, anche nelle caratterizzazioni dei personaggi: l’uomo tutto d’un pezzo distrutto dalla privazione, la donna fragile che annega nell’alcool e nella droga il senso di inutilità che la affligge con il sopraggiungere delle rughe, i giovinetti bellissimi e sicuri di sé di cui sembrano pullulare le scuole americane. A farsi strada è via via un senso di distacco che trova il suo apice nella chiusa melodrammatica e un po’ forzata, dove alle lacrime, pungolate, sopravviene una certa indifferenza. Resta la confezione laccata e accattivante, un indiscutibile gusto estetico che non diventa estetizzante, la superba interpretazione di Colin Firth (giustamente premiato con la Coppa Volpi al Festival di Venezia), probabilmente anche la sincerità di chi mettendo una storia sullo schermo racconta una parte molto intima di sé, ma alla fine la poetica delle piccole cose arriva un po’ in saldo e la cosa più crudele non è tanto l’ineluttabilità del dramma, quanto l’egoismo del protagonista, che, concentrandosi esclusivamente sulle sue pene, pianifica il suicidio proprio nell’ora in cui avrebbe appuntamento con la sua, presunta, migliore amica.

A sorpresa il debuttante assoluto Tom Ford, direttore creativo di Gucci e Yves Saint Laurent, stilista di successo, firma un’opera esteticamente raffinata e assai matura, con l’unico difetto di affidare troppo la propria profondità di sguardo alle sensazioni tattili, di colori e iconografie (deformazione professionale). Non per niente, Ford ha dichiarato tutto il suo amore, fra gli altri, per Kar-Wai Wong, e si dedica, principalmente, alla cura dei sensi (con colori, ralenti, immagini oniriche, commento sonoro), di un cinema che penetri sottopelle, ma dell’autore citato non possiede il pathos (l’umanità) di cui l’estetismo è solo l’alfiere, non il despota. Adattando il romanzo breve “Un uomo solo” (1964) di Christopher Isherwood, lo spoglia della sua portata culturale (di culto nel movimento di liberazione gay, scioccò per la franchezza con cui si dipingeva il protagonista), dei suoi rimandi e stile, finanche dei tratti salienti del suo protagonista che, nella pagina scritta, rivelava la propria voglia di Vita nonostante la depressione; aggiunge caratteri (il ragazzo di Madrid), dettagli personali (l’amore per i fox terrier) e nuovi significati ma, mentre le sensazioni che restituisce restano magnifiche, a livello di contenuto riduce l’opera a temi non nuovi fra difficile elaborazione del lutto, amore gay, senso della vita.