Fantascienza, Horror, Recensione, Thriller

A QUIET PLACE

Titolo OriginaleA Quiet Place
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata90'
Scenografia

TRAMA

Gli Abbott e i loro tre figli camminano scalzi dentro un supermercato abbandonato e lungo la via del ritorno a casa, lontano dalla città. Sono rimasti in pochi nella loro zona e devono stare attenti a non fare alcun rumore, o le terribili creature che hanno invaso il nostro pianeta li individueranno in un attimo e per loro sarà la fine. Per 472 giorni, gli Abbott sopravvivono, sfruttando il linguaggio dei segni che conoscono bene, perché la figlia maggiore è sordomuta. Ma un altro figlio è in arrivo e non fare rumore diventa sempre più difficile.

RECENSIONI

Un'ovvietà: non deve bastare il pretesto. Non ci si può fermare all'idea, ad una bozza di soggetto, al concept da cui si parte per raccontare una storia. Quella cosa lì, quelle prime intuizioni attorno alle quali si vuole organizzare il proprio arco narrativo, non è il film. È solo l'inizio del processo, il mattone che poi reggerà tutta la casa. Bisogna costruirla però questa casa. Ché alla fine è quello che conta, è quello che si vede: la casa, non il mattone; il film, non l'idea. Certo, quella di realizzare oggi un horror sci-fi da multisala quasi completamente muto, pur non essendo particolarmente originale, è un'idea sufficientemente intrigante. Resta un'idea però. Un'idea che, se non la si affronta in modo coraggioso, radicale e soprattutto competente, rischia di diventare decisamente scivolosa. A Quiet Place è un film costruito interamente su questa automutilazione aprioristica: nessun uso della voce (o quasi) e una storia da raccontare ricorrendo alla sola componente visiva. Al suo terzo lavoro da regista, l'attore e sceneggiatore John Krasinski immagina un mondo post-apocalittico in cui sparuti gruppi di uomini cercano di sopravvivere ad una misteriosa razza aliena che ha attaccato la Terra. Gli invasori sono ciechi, ma hanno un udito portentoso: basta il minimo rumore a richiamarli. A quel punto combattere è inutile, non c'è più nulla da fare. Sono logiche narrative che sottostanno perfettamente ad un genere che ha fatto la storia dei videogiochi, il survival horror, qui puntualmente richiamato soprattutto negli evidenti riferimenti tematici e visivi al capolavoro The Last of Us (e prima o poi bisognerà iniziare a riconoscere apertamente l'importanza di quest'ultimo nella rappresentazione del mondo dopo l'apocalisse: penso ad esempio anche agli spazi e alla vegetazione di Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie). Gli ambienti, la necessità di agire in silenzio, la cecità dei nemici e la difficoltà nel difendersi in caso di attacco, persino la barba hipster e l'abbigliamento del padre (interpretato dallo stesso Krasinski) sembrano infatti rimandare in modo non troppo velato all'opera di Naughty Dog. Citazioni, bozze, spunti, pretesti: in una parola, idee. Difficile vederci un efficace tentativo di commistione di linguaggio e immaginario tra cinema e videogioco, di questi tempi esistono esempi ben più incisivi. Ancora una volta, l'idea supera di gran lunga la sua effettiva realizzazione. Come se bastasse a se stessa. Come se, alla fin fine, fosse tutto lì. Ora, all'interno delle regole di un concept così limitante, è evidente come alla scelta di ridurre al minimo le informazioni uditive del racconto, debba corrispondere necessariamente una maggior consapevolezza nell'utilizzo delle immagini. È a loro che ci si sta affidando, è solo di loro che ci si vorrebbe (dovrebbe!) fidare. Ecco, il problema più grande di A Quiet Place è che tale compensazione fisiologica dei sensi non avviene e Krasinski rimane ben presto invischiato in un esercizio di stile che supera di molto non solo le sue capacità, ma perfino il coraggio che è disposto a mettere in campo. A dispetto infatti di ciò che un'operazione di questo tipo richiederebbe e a differenza di quanto mostrato, ad esempio, da Mike Flanagan nel curioso seppur non esaltante Il terrore del silenzio (ma anche da Fede Álvarez nel godibilissimo Man in the Dark), nel film non c'è un'idea di regia fresca o quantomeno interessante neanche a cercarla con la lente d'ingrandimento: non una decisa proposta di rappresentazione del tempo della paura (sulla scia, ad esempio, di James Wan e del suo meraviglioso e in questo senso estremamente teorico The Conjuring - Il caso Enfield), non un discorso di visualizzazione e messa in quadro di questa paura, e men che meno una riflessione significativa sull'uso del silenzio nel cinema dell'orrore. Nonostante le premesse infatti (ed è questo il macroscopico paradosso del film), il silenzio non è contemplato in A Quiet Place. L'(ab)uso del ridondante commento musicale di Marco Beltrami finisce da un lato per porre lo spettatore su un diverso piano emotivo rispetto ai personaggi di cui pur sposa il punto di vista e dall'altro tradisce la scarsa considerazione che Krasinski ha dell'attenzione del pubblico o, ed è forse ancor più grave, delle sue stesse capacità di raccontare (e spaventare) attraverso le immagini.

«Il suono del silenzio a me manca più che a Simon e Garfunkel», cantava Caparezza in Larsen: non è acufene, ma dopo le premesse-promesse tradite di A Quiet Place manca tanto anche a noi.

L’attore John Krasinski, noto per il serial The Office, ha velleità registiche dal 2009 e adatta una sceneggiatura dell’accoppiata Brian Woods e Scott Beck, registi del thriller Nightlight. Produce la Platinum Dunes di Michael Bay & co.: dopo aver tentato di riattualizzare classici dell’orrore del passato, ora segue la scia della Blumhouse che, con budget risicati e idee originali, ha conquistato i botteghini. L’idea di partenza è buona (curiosamente simile, con diverso senso da obnubilare, al coevo Bird Box), permette alla messinscena di sperimentare un cinema senza dialoghi o affidato al linguaggio dei sordomuti (Millicent Simmonds lo è anche nella realtà) ma Krasinski resta nei ranghi di genere, con stilemi umili, lasciando il proscenio all’incubo del silenzio da non infrangere (ansiogena l’idea della madre prossima a partorire: nell’evoluzione parossistica, il neonato urlante viene riposto in una bara con ossigeno). Condivisibile la scelta di non contestualizzare (da dove vengono le creature, cosa sono, cosa è successo nel mondo) e di assurgere a protagonista una semplice famiglia che cerca di sopravvivere: quest’ultima, però, si porta dietro una traccia melodrammatica superflua, con la figlia in astinenza d’amore paterno e figure irritanti, non si comprende quanto volutamente (il figlio pauroso all’inverosimile e la figlia scontrosa combina guai). Poco male, ci sono i “mostri”, figure arcane, con il solito design alla Alien (la faccia che si apre), suoni emessi (ancora…) alla Predator ma un’efficace camminata da quadrupedi con braccia bislunghe. L’onore delle armi, il bollino da discreto prodotto di genere non lo ottiene per una questione di dettagli e talento, di piccoli passaggi inverosimili o non ben spiegati: basti vedere cosa hanno fatto i fratelli Strause nel simile Hidden per capire la differenza. Emily Blunt è la consorte del regista.