TRAMA
La storia della grande poetessa statunitense Emily Dickinson, dai giorni un cui era una giovane studentessa fino agli ultimi anni di vita, vissuti da reclusa e senza che il suo talento fosse riconosciuto.
RECENSIONI
Premessa
Accelerazione, compressione, movimento, ritorno. L’impressione è che Terence Davies si muova nel piano filmico per mezzo di queste particolari tensioni. Attraversando dimensioni fatte di corpi (macchina da presa, attori, oggetti), traiettorie e durate, l’intenzione è quella, paradossale, di uscire dai confini del tempo. Nel corso della visione, infatti, assistiamo a due progressioni differenti: da una parte, l’occhio contempla il disfarsi del corpo (da notare, in questo senso, il morphing facciale nella scena dei ritratti), il dolore della malattia, il compromesso candore di un vestito bianco; dall’altra, vediamo come l’universo interiore della protagonista, in parallelo, si espanda e si cristallizzi in un’anima integra, priva di compromessi, lontana da ogni conformismo e destinata a diventare, appunto, eterna, atemporale.
“La mia anima è mia”, afferma con orgoglio Emily confrontandosi con il padre, e questo è uno dei motivi guida dell’opera: nonostante Emily incontri l’infedeltà dell’amato fratello Austin, il quale tradisce la moglie con una bella musicista, o sia costretta a confrontarsi con la distanza che corre tra parola e azione (l’amica Vryling Wilder Buffum la rimprovera di non essere “intelligentemente ipocrita”), il suo mondo interiore resta puro, intoccabile, spiritualmente elevato.
Anche a costo di diventare, come la madre, semplice spettatrice di eventi e relazioni di cui non farà mai esperienza, la grande poetessa non cede mai completamente alle convenzioni del piccolo teatro che si dipana davanti a lei.
Caducità/Eternità
Curiosamente (e, a parere di chi scrive, molto consapevolmente), nella breve parentesi che Davies dedica alla giovinezza della poetessa vediamo come l’attenzione si veicoli maggiormente sul problema della caducità, del cambiamento, della paura della fine (si citava poc’anzi, appunto, la scena del morphing facciale).
Nei primi minuti del film, vediamo il gruppo familiare riunito intorno al fuoco, e ciascun membro è assorto nel proprio ozio contemplativo; una lenta panoramica circolare parte dalla giovane Emily (che sta osservando la “scena”) e mostra tutta la sala (la m.d.p. ruota verso sinistra) mentre in voice over la protagonista recita:
“Il cuore chiede il piacere, innanzitutto/e poi, l’esenzione della pena/e poi, quei piccoli lenimenti che attenuano la sofferenza/e poi, addormentarsi/e poi, se questa fosse la volontà del suo inquisitore/il privilegio di morire”.
La panoramica, il cui incedere è segnato dal ticchettio di un pendolo che, a un tratto, fa risuonare l’ora trascorsa, si ferma infine sulla poetessa dopo aver compiuto un giro completo: il volto della giovane Emily è sconvolto; la rivelazione della sua transitorietà nel mondo le arriva addosso con forza dirompente.
Nella seconda parte, Terence Davies è interessato invece a come l’integrità spirituale della poetessa americana si rafforzi con il venir meno del vigore fisico (una terribile malattia uccide Emily il 15 maggio 1886, a soli 56 anni) e, soprattutto, su come la purezza dell’anima poetica resti viva nonostante le ripetute esperienze di frustrazione affettiva-relazionale.
La scena in cui la matura Emily Dickinson (interpretata da una meravigliosa Cynthia Nixon) evoca l’amore tanto desiderato e mai realmente vissuto è, in questo senso, paradigmatica: un quadro fisso sull’uscio della stanza della poetessa ci mostra la porta parzialmente illuminata dalla luce diurna che filtra dalle imposte di una finestra adiacente. Quando la voce di Emily invoca “l’incalzante uomo nella notte”, i fotogrammi accelerano e dissolvono in pochi secondi i residui di luce; siamo giunti al cuore della notte, la porta si spalanca e la macchina da presa avanza verso l’interno della stanza. Emily Dickinson è seduta, il suo volto è illuminato da una piccola lampada e lo sguardo fisso in camera; lentamente, chiude gli occhi e si abbandona all’oggetto del suo desiderio. Passiamo al piano inferiore della villa dei Dickinson: la porta principale si apre con estrema lentezza, e sulla soglia scorgiamo l’ombra di una figura maschile. Vediamo la figura attraversare il corridoio (la m.d.p. indugia per un po’, quasi ironicamente, su un bouquet di fiori) e salire lentamente le scale. Una dissolvenza incrociata ci riporta nella stanza della poetessa, i suoi occhi si riaprono, spera di identificare l’ombra di fronte a lei. Purtroppo nulla si materializza, e il volto di Emily manifesta la più profonda sofferenza: il suo sguardo si abbassa, mentre la m.d.p. retrocede tornando al punto di partenza. La porta della stanza si richiude. In una scena costruita attraverso magnifiche modulazioni temporali e movimenti di macchina lenti e precisi, quello che si rivela è l’atto di devozione, la dimensione eterna di un amore fuori dai confini che, nonostante resti un palpito opaco, un’ombra inafferrabile (o, forse, proprio per questo), configura l’anelito all’assoluto che l’anima poetica di Emily ricerca costantemente. Dopotutto, nell’etimo, non è forse vero che uno dei possibili sensi del termine “amore” si possa individuare nella forma latina a-mors, ovvero ciò che non muore?
Decentramento/Ritorno
Come in tutte le grandi opere, i primi minuti segnano con pochi, limpidi tratti il senso complessivo dell’insieme. Terence Davies è fin dall’inizio interessato, visivamente e drammaturgicamente, al decentramento di Emily, posizione che porta con sé un carattere sia fisico sia spirituale. Nella prima scena, infatti, notiamo nel confronto tra la giovane Dickinson e la madre superiora del seminario femminile, luogo all’interno del quale la poetessa studia, un’alternanza di piani che svela un’asimmetria: l’anziana matrona del collegio è posizionata perfettamente in centro al quadro, mentre invece Emily è inquadrata sul lato destro, quasi in proporzione aurea rispetto alla linea orizzontale del frame.
La protagonista è già qui consapevole della differenza che corre tra la propria dimensione e quella altrui, dell’unicità che segna la sua forza interiore e che la metterà in conflitto, nel corso del proprio tempo, con il piccolo mondo circostante.
Anima/Corpo
L’ultimo lavoro di Terence Davies è animato, quindi, da una meravigliosa vertigine: lo spazio infinito e multidimensionale della poesia trova, come veicolo di manifestazione, un corpo finito e in lento disfacimento. È possibile raccontare questi piani dell’esistenza solo apparentemente distanti? E sono davvero due, i piani?
A Quiet Passion dipana questo insolito paradosso, come abbiamo visto, attraverso falsi movimenti: nel suo mettere in scena, in maniera apparentemente centrale, il declino inesorabile del corpo, il film descrive limpidamente lo spazio invisibile dell’anima di Emily Dickinson la quale, poco a poco, diventa sempre più definita e integra. In parallelo, il cineasta britannico indugia sulla lentezza, sul peso del tempo che scorre, con l’intento vero di immergerci nello spazio eterno, atemporale, dell’arte poetica. Quando, in un confronto con l’amica Vryling Wilder Buffum, Emily si sente dire: “Tu non dimostri, tu riveli”, la percezione dello spettatore si spalanca improvvisamente, come se lo sguardo non fosse più direttamente connesso ai fenomeni, alle mutevoli relazioni familiari, bensì mosso nella direzione di ricerca di una verità che possa comporre ciò che solo in apparenza è diviso, frammentato. Sarà proprio il momento che coincide con la fine della vita della poetessa a definire, attraverso il voice-over, l’intero percorso della sua vita:
“Due volte si è chiusa la mia vita/prima di chiudersi. Ora non mi resta che attendere/se l’immortalità mi sveli/un terzo evento,/immenso, inimmaginabile, impossibile come questi,/due volte accaduti./ La separazione è tutto ciò che sappiamo del Cielo/e tutto ciò che vi basta sapere dell’Inferno.”
