TRAMA
Lucille Ball e Desi Arnaz sono una coppia sia nella vita che sul piccolo schermo, dove interpretano Lucy e Ricky Ricardo nell’amata sitcom I Love Lucy. Ma l’equilibrio delicato tra amore e lavoro viene messo in crisi…
RECENSIONI
Aaron Sorkin è un ottimo sceneggiatore quando, per scelta, lavora sui bordi dell’immagine, intesi in senso più allegorico che fisico: la doppiezza di Mark Zuckerberg (The Social Network), il coitus interruptus di Steve Jobs (Steve Jobs); le ombre, quelle che si proiettano il più lontano possibile dalla linea di demarcazione tra privato e pubblico, i dietro le quinte di una rappresentazione che non può cominciare davvero perché la sua grandezza sta nell’abilità di perpetuare l’attesa del piacere – o un moto simile – all’infinito. E lì, da qualche parte, la penna di Sorkin colloca Mark e Steve, così esposti, nella segretezza, dietro le quinte di un progetto epocale o di una presentazione pubblica, da darci l’impressione di conoscerli da una vita. In realtà sono e restano presenze fantasmatiche, sfocate nella loro essenza, inconoscibili e imprendibili. L’ossimoro si realizza ed è con lui che si esplica la complessità inutile dell’essere umano, come sottolineava il Bardo, mettendo in bocca, a uno dei suoi più feroci assassini, uno dei suoi soliloqui più belli: «Life's but a walking shadow, a poor player, that struts and frets his hour upon the stage, and then is heard no more. It is a tale Told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing».
Ecco, su quei territori Aaron Sorkin si muove con destrezza. I suoi testi, che vogliono sempre dire qualcosa di più e di diverso rispetto alle parole effettivamente pronunciate dai personaggi, intercettano, quando ci si esprime a proposito di esseri viventi superpotenziati, quasi supereroi (o supervilliain, o più naturalmente entrambi, per genio, per bramosia di successo, per fame di applausi ecc.), la possibilità di una prototipizzazione efficace. Allo stesso tempo, le sceneggiature si nutrono della volontà di scomporre il superman in frammenti e sebbene non restituiscano mai l’uomo nella sua interezza, ci permettono almeno di vederne in controluce il portato chiaroscurale.
Senza il supporto del tavolo verde, invero arma a doppio taglio, per la facilità con cui si può cadere nella metafora abusata del gioco del poker, Sorkin torna, con Being the Ricardos, a mettere al centro della scena (o del fuori scena) l’universo muliebre: Lucille Ball, star televisiva, che aspirava al grande cinema, donna creativa in un mondo saldamente dominato dal volere e dal potere maschile.
Mi permetto di dire che con Molly (Molly’s Game), l’autore newyorkese, anche qui nella doppia funzione di scrittore e regista, abbia scansato il focus. Di Molly Bloom, personaggio di fantasia, ambiguo e sfuggente per necessità (e con un nome anche troppo pedantemente letterario), sapevamo e dovevamo sapere pochissimo, soltanto ciò che lei stessa voleva farci conoscere, per assecondare l’illusione pokeristica o per malia di seduzione. Il lavoro sui bordi era per questo difficile da portare a compimento: nessun margine definiva la stratega delle carte né poteva farlo, perché sarebbe venuto meno il mistero che, per statuto drammatico, doveva ammantare la sua figura. Il risultato confliggeva con la possibilità tangibile di restituire umanità – sia pure guardando all’archetipo – ai personaggi principali. Questi emergevano come meri attanti di un teatrino mosso dai fili di una retorica brillante, fulminea, ma in definitiva, poco più che un repertorio scevro di energia pulsante.
Lucille Ball, per il pubblico Lucy, rappresenta al contrario una sorta di nemesi dell’invisibilità (ricercata, come nel caso di Molly, o meno che sia). La diva Lucy – diva, sì, ma non quanto lei avrebbe desiderato – è anzi una figura di visibilità elevata alla seconda: vita pubblica e vita privata, in Being the Ricardos, si intersecano senza soluzione di continuità, lasciando tuttavia trasparire, man mano che ripercorriamo la vicenda, il disagio di Lucille rispetto a una finzione che non la esaurisce, come attrice/mente creativa e nemmeno come donna. La stessa scelta di Nicole Kidman (in perfetto equilibrio attoriale, come anche Javier Bardem che incarna il marito, Desi Arnaz) quale interprete non somigliante – in accordo, ma estremizzando l’artificio, con ciò che avveniva con Michael Fassbender/Steve Jobs – risponde alla necessità di rendere manifesta la maschera. Una maschera di doppio livello, come doppia ci appare la natura di ogni cosa in questo film, finzione imbastita, al ritmo dell’apparecchiatura di un tavolo per quattro, e mockumentary insieme. Tutto il mondo di Lucille Ball è un palcoscenico e gli spettatori live, quelli che ridono in diretta alla vista degli sketch, sono messi a parte della simulazione: Lucy e/è Lucille.
C’è infatti, o sembra esserci, una differenza a stento delimitata tra la Lucy di I love Lucy (sitcom in onda sulla CBS dal 1951 al 1957) e la vera Lucille Ball. L’attrice cita un suo precedente ruolo, quando tenta di farsi riconoscere dal futuro marito, e pare inscenare i propri sentimenti come in una screwball comedy (si pensi alla rottura telefonica col fidanzato, appena sedotto Desi).
Vi è tuttavia, oltre il confine del visibile, in una parte intima degli affetti, che non può essere messa in discussione e laddove Aaron Sorkin lavora con maggiore potenza espressiva, una zona inviolabile. Il fuori scena diviene così il fulcro di una disamina, non tanto sulla capacità affabulatoria dei media e sulla loro abilità luciferina di usare o distorcere il reale a favore di camera, quanto sull’autenticità dell’essere umano. Quel grado recondito che non è possibile svendere in virtù di nessun applauso, che non si può celare sotto nessun trucco e che non si può correggere, riscrivendo in modo più plausibile una gag poco riuscita.
Lucille, pur accettando di farsi scagionare in pubblico, di farsi spettacolarizzare, addirittura per voce del direttore dell’FBI, J. Edgar Hoover, rivendica – fuori scena – la sua scelta di appoggio al partito comunista, in nome degli ideali dell’amato nonno Fred. Cade la maschera, almeno una, al di là del terrore umano e divistico dell’onta e dei fischi. E all’interno di una beffa speculare, di nuovo, questa volta per mezzo di una macchia pressoché indistinguibile di rossetto su due fazzoletti identici, avviene l’agnizione del fedifrago e la fine – forse – di ogni recita.
L’ennesima ripetizione dell’entrata in scena di Ricky Ricardo – una finzione troppo poco credibile, protesta la diva, qualcosa che il pubblico non le avrebbe mai perdonato – lascia Lucy Ball come in un temporaneo freeze, che è invece l’evidenza di una raggiunta consapevolezza.
Sul resto, ci informa la didascalia, mentre la macchina da presa opta per la pudicizia dell’allontanamento: «on March 3rd 1960, Lucy filed for a divorce from Desi. It was the morning after their final performance together». È un paradosso, ma il vero biopic pare comprimersi in poche immagini precedute da un antefatto-artefatto spudorato; Sorkin è di certo meno spigliato, come regista, del sodale Fincher, quando prova a far dialogare istanze del passato maccartista con quelle presenti – l’idea di Arnaz dell’ostensione della gravidanza, all’epoca avversata, oggi quasi obbligo contrattuale –, ma il non-ritratto di Lucy risulta comunque abbastanza incisivo, specie quando si palesa la vivida vis animi ingabbiata della donna.
Parafrasando il milleriano John Proctor, citato proprio in un frammento di Molly’s Game, Lucille Ball sembra dirci, sul finale: «io vi ho lasciato la mia anima (e i miei anni migliori, il talento che non mi avete riconosciuto appieno, persino il mio volto, prestato a una richiesta di eterna giovinezza), lasciatemi il mio nome».
And so… we’ll love Lucy, forever and ever.
