TRAMA
Sylvia Stickles, è sposata ma rifugge dal sesso. Un colpo in testa e l’incontro con Ray-Ray Perkins, un messia della rivoluzione sessuale, cambieranno la sua vita.
RECENSIONI
“Mia figlia è una brava ragazza, odia il sesso!”
Se John Waters è di nuovo alle prese con gli strali episcopali e con la censura americana che pone il massimo divieto a questo A DIRTY SHAME (NC-17), si può legittimamente pensare, com’è stato in effetti detto, che il regista sia tornato alla sua vena più dissacratoria, quella no limits degli esordi. Non è affatto così: la normalizzazione del suo cinema (che non significa omologazione, sia ben chiaro) è un dato non più eludibile e comunque perfettamente coerente con quello che è oramai un dato di fatto: la spazzatura è dappertutto (Divine che mangia la merda in PINK FLAMINGOS, 1972, come atto estremo che consacri la sua celebrità, è una trovata poi così diversa da quella dei recenti lanci pubblicitari di eventisituazioniprogrammi di patetico vuoto? La fama di Dawn Davenport, Divine in FEMALE TROUBLE del 1974, che si celebra in uno show fatto di nulla non è lo specchio fedele della televisione odierna? Potremmo continuare ad libitum) e ricontestualizzarne il discorso in un’opera cinematografica divenuta anche prodotto commerciale, e non solo oggetto di culto underground, diventa inevitabile, coerente, programmatico. E’ peraltro vero che in questo divertentissimo film Waters riprende il discorso sessuale con un’insistenza esplicita che da tempo latitava, e che la rinvigorita iconoclastia, la feroce provocazione del suo girare, instillano fastidio a un’America sempre più conservatrice e moralista, che volentieri rimuoverebbe le allegre depravazioni in celluloide dell’autore di HAIRSPRAY. Il film, quattro anni dopo A MORTE HOLLYWOOD!, è il solito triturato di sequenze e idee fulminanti, siparietti e battute salaci incastonate in una trama esile quanto un pretesto e poggiata su una struttura che rimane pressoché invariata da film a film: due opposti fronti in tenace, assurdo combattimento (neuters vs. libertines) nella cornice dell’immancabile Baltimora, dipinta in questo caso come città del sesso, dove vecchietti si baciano come ragazzini, si praticano pompini in mezzo al traffico (“Mangiano essere viventi… Nello sperma!”), mogli sono vittime costanti del desiderio viagrato del marito, scoiattoli disneyani copulano allegramente, tutti sono discretamente arrapati. In questa realtà di voluttà costante, in cui la sessodipendenza è provocata da casuali botte in testa, si erge la figura messianica di Ray-Ray (Johnny Knoxville, che proviene da un programma come Jackass, illegittimo figlio del Nostro) alla ricerca spasmodica di un nuovo tipo di atto sessuale. Siamo nel cinema scorretto più marcatamente watersiano, quello che rivendica il valore del colore più smagliante contro il grigio dominante del sistema, che piega anche un’icona televisiva come David Hasselhoff alla sua poetica fecale, che trova in Tracey Ullman una protagonista mattatoriale (il ballo con la bottiglia nell’ospizio è scena da riso inconsulto), che obbliga ambientazioni, oggetti, personaggi e risvolti della trama alla sua politica estrema e ossessiva. E’ il consueto guazzabuglio, insomma, ma legato a filo doppio dall’ironia e acutezza di uno degli autori americani più originali, sintomatici e dannatamente divertenti di questi anni.
Impagabile il siparietto iniziale, col regista che si prende gioco del divieto di fumare in sala.
