TRAMA
Nella Ciambra, una piccola comunità rom nei pressi di Gioia Tauro, Pio Amato cerca di crescere più in fretta possibile, a quattordici anni beve, fuma ed è uno dei pochi in grado di integrarsi tra le varie realtà del luogo: gli italiani, gli immigrati africani e i membri della comunità rom. Pio segue ovunque suo fratello Cosimo, imparando il necessario per sopravvivere sulle strade della sua città. Quando Cosimo scompare le cose per Pio iniziano a mettersi male, dovrà provare di essere in grado di assumere il ruolo di suo fratello e decidere se è veramente pronto a diventare un uomo.
RECENSIONI
“Una volta eravamo sulla strada. Una volta eravamo liberi”: è il nonno a pronunciare queste parole, il capofamiglia anziano, uno che per motivi anagrafici si è fatto meno contaminare dalla cultura del paese ospitante (è l’unico che non capisce e non conosce nemmeno una parola di italiano); uno che ha vissuto abbastanza a lungo da poter percepire il cambiamento. Un cambiamento nelle dinamiche interne della famiglia rom di cui fa parte (ora sedentaria in quel di Gioia Tauro, Calabria), un cambiamento nei rapporti che tale famiglia instaura con le comunità vicine, un cambiamento che riguarda, prima di tutto, la percezione che la comunità ha di se stessa e del proprio (non) ruolo. Insomma, un cambiamento nella sua struttura, un cambiamento del proprio corpo. Di questo parla A Ciambra, secondo film dell’italo-americano Jonas Carpignano (suo Mediterranea, presentato con successo nell’edizione 2015 della Semaine de la Critique) e tratto da un corto da lui stesso realizzato nel 2014: di cambiamento, di corpi. Di un corpo in particolare, quello di Pio, quattordicenne rom che si trova improvvisamente nella situazione di dover portare a casa i soldi dopo l’arresto del fratello maggiorenne. A lui si incolla lo sguardo del regista, leggero e invisibile, partecipativo, ma sempre attento a stare lontano da qualsiasi giudizio etico o morale. Perché non sta a lui giudicare, così come non sta allo spettatore: nonostante Carpignano abbia deciso da qualche anno di vivere a Gioia Tauro, rimangono entrambi esseri estranei, sempre troppo lontani da quel mondo per avere il diritto di puntare il dito. In questo senso, A Ciambra rivendica pienamente il potere dell’osservazione come sforzo primario e necessario per arrivare alla comprensione di un ignoto che, in quanto tale, appare inevitabilmente minaccioso. Certo, quello tra osservazione e comprensione è un binomio sempre complesso e ambiguo, su cui il regista non si interroga perché non è quello il punto. Ciò che conta veramente, alla fin fine, è la volontà, il desiderio (la fatica!) di osservare.
Bisogna accoglierlo questo invito a guardare, e a guardare davvero, senza preconcetti o pregiudizi d’ogni sorta. Ed è proprio attraverso un bambino-che-sta-per-farsi-adulto, un individuo che ancora (per poco) può contare sulla purezza del suo sguardo, che veniamo accompagnati all’interno delle reti e delle dinamiche di quell’universo sconosciuto. Pio è chiamato a crescere rapidamente, a cambiare in fretta, in modo talmente repentino e improvviso che non gli viene concesso nulla di quell’incertezza e di quella ricerca di se stessi che è propria dell’adolescenza. Il ragazzo deve diventare subito uomo, ed è una conquista che lì avviene a suon di furti, lavoretti improvvisati e favori. Un racconto di formazione, dunque: non a caso lo schema narrativo che più di tutti ingloba il cambiamento nella sua stessa definizione. In tutto questo, Carpignano è bravo ad intersecare con naturalezza e senza forzature (perfino nelle sequenze in cui aleggia una vaga atmosfera onirica, dove il rischio di eccedere in compiaciuti manierismi è dietro l’angolo) osservazione e narrazione, sguardo su una vita particolare e messa a fuoco di un mondo così fuori da tutto, così dimenticato ai margini: un costante a parte geopolitico, un universo che sopravvive silenzioso nel fuori campo della Storia e che l’autore si propone di rimettere al centro, per dargli finalmente un volto e una dignità. Co-produce un entusiasta Martin Scorsese.
