
TRAMA
Dane ha un lavoro stressante e competitivo che gli lascia poco tempo per la famiglia. Un giorno però suo figlio si ammala.
RECENSIONI
Quando un padre è il film di un regista esordiente - l’attore brillante Mark Williams, che è stato anche il papà di Ron in Harry Potter - e dello sceneggiatore dei film The accountant e The judge. La pellicola immerge nella contemporaneità delle storture del mercato del lavoro il tema senza tempo dei legami famigliari. Dane, interpretato in modo molto credibile da Gerard Butler, è un cacciatore di teste per una grande azienda. Incollato tutto il giorno al telefono, è soprattutto un venditore. Dice di vendere il sogno americano, ma vende prima di tutto se stesso. Gioco forza, è sicuro di sé - si paragona persino ad Iron man - e deve essere sempre carico, sempre sul pezzo. Lavora 70 ore a settimana, a percentuale, con la costante ansia di chiudere i contratti, e di chiuderne più dei colleghi con cui viene deliberatamente messo in competizione. Una competizione senza esclusione di colpi, pur di arrivare a suonare pubblicamente una campanella che vuol dire successo, almeno per un po’, il cui silenzio vuol dire invece fallimento. Questo il contesto, esplicito e funzionale ad agganciare il pubblico. L’ambiente di lavoro da squali senza scrupoli ricorda un po’ quello di Tra le nuvole (lì erano tagliatori di teste). Perennemente impegnato tra telefono e mail, il protagonista lascia alla propria famiglia solo le briciole. E questo è il secondo gancio per l’attenzione del pubblico, posto di fronte alla vecchia diatriba carriera/affetti, lavoro/famiglia - curioso che un film con lo stesso titolo originale (The family man) vedesse Cage in bilico tra le due opposte strade. I contrasti con la moglie sono l’inevitabile corollario, tra insoddisfazione di coppia per entrambi e crescenti rancori: Dane vorrebbe di più e meno monotonia, senza però applicarsi per raggiungere questi obiettivi, ed alle recriminazioni della consorte rivendica che il suo lavoro assicura la tranquillità economica a tutti loro.
Sappiamo già dove si andrà a parare. Il film ha la capacità di svelare senza troppe banalità dinamiche verosimili, ma non il coraggio di sottrarsi a facili morali e soluzioni semplificatorie.
Poche incertezze. Secondo il figlio, il protagonista trova lavoro agli altri papà, così si possono prendere cura della famiglia. Il maturo disoccupato in difficoltà dice a Dane che la famiglia è tutto. Sarà l’evento tragico, prevedibilmente, ad innescare il necessario cambiamento nell’uomo. All’arrivo del dramma la situazione precipita rapidamente e il film entra in un genere di lunga e commovente tradizione. Dall’ingresso in ospedale dopo la diagnosi alla testa calva passa poco, fino ad arrivare alla scena madre della mamma che toglie le scatole di fazzoletti dal banco momentaneamente vuoto del figlio - un altro momento in cui la pellicola rivela una sceneggiatura non rozza come certi meccanicismi indurrebbero a credere. A questo punto il padre porta il figlio malato a vedere i palazzi, per cui il bambino nutre una vera passione. Perde il mese e sceglie cosa privilegiare. E’ quello del finale un cambiamento troppo drastico dopo tante disinvolte bassezze, corredato dal buonismo dilagante - anche il boss si rivela umano dopo averlo licenziato, per non parlare del personaggio di Molina. E per il futuro, basta lavorare da casa. Facile, insomma. Eppure il film ha un certo ritmo e trova alcuni passaggi più che dignitosi nonostante il ricatto in agguato delle lacrime. Peccato che, oltre a qualche invenzione di regia, gli manchi il coraggio di una maggiore complessità fino alla fine.
