Horror

LE COLLINE HANNO GLI OCCHI (1977)

TRAMA

Una famiglia americana attraversa il deserto del Nevada. La attende un gruppo di folli predoni che vive sopra le colline.

RECENSIONI

Quaranta anni dopo

Il 22 luglio 1977 esce nelle sale americane The Hills Have Eyes: da un budget stimato di 230.000 dollari ne incassa 25 milioni. È il terzo lungometraggio di Wes Craven, dopo l’esordio “terroristico” di The Last House on the Left (1972) e l’incursione erotica di The Fireworks Woman (1975) a firma Abe Snake, a posteriori funzionale per rileggere il percorso del cineasta e il ruolo del porno come laboratorio di formazione, da poco uscito in DVD italiano col titolo La cugina del prete. Lasciando tra parentesi la commissione a luci rosse, Le colline hanno gli occhi è il secondo tassello nella decostruzione craveniana della famiglia e società americana: ideato, sceneggiato e diretto dal regista, è il film che conferma la svolta realistica nella rappresentazione della violenza nel cinema horror americano degli anni Settanta, postulata proprio a inizio decennio - tra gli altri - da L’ultima casa a sinistra. È un racconto calato negli Usa del post Nixon, girato nell’ultimo anno del mandato Ford, che Craven costruisce nuovamente su un meccanismo di opposizione binaria: da una parte c’è la famiglia americana, i Carter, dall’altra il nucleo di predoni forse resi deformi dagli esperimenti nucleari del governo. La prima è composta dal capofamiglia Bob, poliziotto in pensione che non si separa mai dalla sua pistola, la moglie Ethel, il figlio maschio Bobby, le femmine Brenda e Lynne con il marito Doug, la neonata Kate e i due cani lupo Belle e Beast. I folli si chiamano tra loro con i nomi dei pianeti: Papa Jupiter, la sua compagna senza nome (indicata semplicemente come Mama), i quattro figli Pluto, Mars, Mercury e la femmina Ruby, il carattere più sensibile del gruppo criminale.

La dissonanza tra i due nuclei viene decretata già a livello visivo: la “bella” famiglia idilliaca, con volti puliti e rispetto di educazione e religione, simboleggiata graficamente dalla figura di Bob (interpretato da Robert Houston, biondo e occhi azzurri), viene messa a confronto con la deformità mostruosa dei fuorilegge. Ma è un contrasto tanto urticante quanto apparente: per la seconda volta anche qui, secondo Craven, la famiglia americana non è migliore delle forze oscure che la minacciano. Da parte loro, i Carter partono dall’Ohio per raggiungere la California, approdo mitico della tradizione narrativa (basti pensare - a titolo di esempio - ai romanzi di Steinbeck) e festeggiare le nozze d’argento, per questo attraversano il deserto: non a caso il contatto con i predoni è dovuto a un atto di hybris, all’arroganza del capofamiglia nell’esigere una scorciatoia, e vengono così coinvolti nello scontro. Gli uni contro gli altri, corpo a corpo. La tradizione critica su questo film lo riconduce chiaramente alle stimmate del western, ritrovando nell’assedio alla roulotte dei Carter la dinamica tipica dell’assalto alla diligenza: in particolare, come scrive Roberto Pugliese, è «un antiwestern moderno sulla disgregazione della famiglia in una sorta di guerra totale e finale fra ere, ambienti, metodi e (in)civiltà contrapposte» (Wes Craven. L’artigianato della paura, edizioni Lindau).

La profanazione dello spazio domestico

La messinscena si apre perlustrando la sagoma delle colline, sulla musica strategica e minacciosa di Don Peake, come a dire: noi le osserviamo, ma anche loro ci guardano. E subito Craven inquadra l’archetipo del paesaggio post-atomico, con fluttuanti balle di fieno che introducono alla Fred’s Oasis. L’ombra implicita del Vietnam ne L’ultima casa a sinistra è qui sostituita - in modo nettamente più esplicito - dalle conseguenze degli esperimenti nucleari. A far scappare Fred dalla sua stazione di servizio è infatti la povertà, il territorio ormai brullo, ma soprattutto le ambigue manovre governative che si svolgono nel deserto («Questa faccenda non mi piace per niente», afferma). Al contrario i Carter arrivano e sono spiati dai predoni, introdotti dalla soggettiva attraverso il binocolo, e mediante una serie di astuzie di genere (su tutte il guasto all’automobile) vengono spinti verso l’inevitabile battaglia. All’insegna dell’ambiguità: «Preghiamo tutti insieme», fa dire Craven alla madre, ma poco dopo il ricordo truculento di un barboncino sbranato dal cane di famiglia viene evocato tra le risa, andando già a preconizzare il “non rifiuto” della violenza che si manifesterà in seguito. Dopo il primo incrocio tra i due livelli, sotto e sopra le colline, che porta all’uccisione del cane Belle, arriva l’assalto dei predoni, consumato nella profanazione dello spazio domestico.

Qui Craven disegna un doppio movimento sull’asse roulotte-colline: da una parte i predoni si portano dal buio verso la luce, dall’altra i famigliari vengono attirati dall’interno chiaro all’esterno scuro, in una graduale messa in trappola che costa caro al capofamiglia Bob, demolendone definitivamente l’improbabile mascolinità esibita. È nell’essenziale scena dell’irruzione, però, che il racconto inizia a dispiegare il suo potenziale conturbante: i mostri entrano e qui, su tappeto sonoro di urla e gemiti gutturali, si addensa una coincidenza di deviazioni, dal cannibalismo alla sessualità repressa («Devi aspettare per diventare un uomo», dice Mars a Pluto), proiettando le rispettive pulsioni sui membri della famiglia. Così l’inquadratura quasi softcore sulla ragazza che dorme lascia intravedere un appetito erotico, e così la fame bestiale di Mars si concentra sugli alimenti per poi slittare sull’animale: stacca la testa dell’uccellino in gabbia e beve il suo sangue, anticipando il trattamento che si applica agli umani, in una ripresa talmente eccessiva da suonare autoparodica nei confronti del genere. Ma l’inquadratura più inquietante, a mio avviso, è un’altra: lo sguardo in soggettiva del mostro sulla bimba neonata. Già appurata l’abitudine cannibale, in virtù della conoscenza spettatoriale il quadro si riempie di significato ulteriormente dislocante: egli la vede come cibo, sappiamo che vuole mangiarla. E l’amara ironia del cineasta paragona il bebè al tacchino del ringraziamento, nell’ennesima beffarda parodia dell’american life. Tutto questo avvolto nell’estremo realismo della violenza, con effetti e make-up che si mescolano a “visi veri” (il lombrosiano Pluto di Michael Berryman), e soprattutto con una terrorizzata Brenda (Susan Lanier) che urla a perdifiato, tenendo l’urlo per molti secondi in una resa iperbolica e straziante. Seppure imperniata su conflitti elementari, su rapporti leggibili di azione e reazione, è una delle migliori sequenze della prima filmografia craveniana.

La scelta di esporre la madre

A quel punto i Carter organizzano la reazione, con il sostegno decisivo dei loro cani, il precipitato dell’animale “amico”. Stavolta la scena è in pieno giorno: i predoni vengono attirati alla luce, in un movimento contrario al precedente, qui è la famiglia “normale” a tendere l’amo. La luce è la trappola: vedere nitidamente i mostri diviene lo strumento per attuarla. E c’è una traccia politica: quando i selvaggi si portano al sole, squadernando apertamente la loro deformità, è allora che la famiglia americana si dimostra mostruosa, deforme interiormente, non minore degli altri nella capacità di applicare la violenza. Facendo rima con la vendetta genitoriale che chiudeva L’ultima casa a sinistra, qui i membri decidono di esporre il cadavere della madre come esca per i nemici, in un gesto gemello con il precedente finale: se è vero che il corpo di Ethel Carter (Virginia Vincent) occupa un ruolo fondamentale nel volgere lo scontro a proprio favore, è altrettanto certo che la sua esposizione è frutto di una scelta meditata. Agendo ormai sul piano dichiarato della violenza i figli, davanti alla necessità di abbattere il nemico, decidono consapevolmente che questa è superiore al rispetto dovuto alle spoglie della cara defunta. Ma c’è di più: il piano, malgrado l’iniziale dolore di prammatica, viene poi eseguito con cinica lucidità. Quando i predoni abboccano i ragazzi ridono amabilmente, hanno già scordato la morte della madre: e così la figura della Mamma viene violata proprio per mano dei suoi figli. A corollario dell’avvenuta “mostrificazione” del nucleo non resta che l’atto finale di Doug (Martin Speer): l’uccisione di Mars avviene in un profluvio di coltellate, troppe, perché anche se in posizione di vantaggio il genero americano non può smettere di colpire. E Craven chiude con la dissolvenza in rosso che tinge di sangue l’immagine idealizzata della famiglia.

Nota a margine: i mostri di Wes

Considerando la parabola de Le colline, nel film si ritrova una seconda e fondamentale tappa nell’evoluzione del concetto di “mostro”, gradualmente elaborato nel tempo da Craven regista horror. L’assunto alla base è sempre il medesimo: la famiglia americana, diversa - come detto - dalla superficie rassicurante e perbenista che vuole proporre, viene funestata da qualcosa che proviene da una dimensione attigua alla nostra, tanto terrorizzante quanto vicina a noi. È la concretazione di questo pensiero a cambiare di film in film: ne L’ultima casa a sinistra gli assassini si incontrano in periferia, ai margini della città, lì Mary e Phillips si recano per comprare erba e incappano nella banda criminale di Krug Stillo. Ne Le colline la famiglia esce dalla città, ma neanche qui è al sicuro: nel paesaggio desertico si annidano mostri sopra le colline. Con lo slittamento dalla metropoli a fuori, dunque, si configura una progressione in divenire che punta scientificamente a eliminare ogni ipotesi di “luogo sicuro” per il nido domestico. E gradualmente prepara la strada al punto di arrivo del percorso: i mostri iniziano a sviluppare l’idea di un livello altro, che non è quello della realtà tangibile in cui viviamo, ma chiede di guardare in alto (oppure - più avanti - di chiudere gli occhi) per essere visualizzato. Se la metropoli è pericolosa, se i deserti nascondono predoni, resta solo la casa come plausibile rifugio, ma presto anche questa verrà violata dal mostro definitivo: Freddy Krueger, colui che colpisce lo spazio più intimo dell’uomo, ovvero il sonno, quando la coscienza si addormenta. È il mostro che abbiamo nella testa. Dopo la città e fuori, anche la mente non sarà più al sicuro: per arrivare al terremoto totale delle certezze, il percorso di esclusione dai possibili ripari ne Le colline hanno gli occhi muove un passo decisivo.