TRAMA
A Bucarest, tre giorni dopo l’attentato contro Charlie Hebdo e quaranta dopo la morte del padre, Lary trascorre la domenica con tutta la famiglia, riunita per commemorare il defunto. Non tutto, però, va come previsto: tra discussioni, contrasti, segreti, complotti, Lary si vedrà costretto ad affrontare le proprie paure, a riconsiderare il proprio posto all’interno della famiglia. E a dire le sue verità.
RECENSIONI
Sieranevada. Una sola "r". Ortografia intenzionalmente scorretta per un titolo beffardo, intraducibile e quindi paradossalmente internazionale, echeggiante spazi sconfinati e viaggi western (oltre che il profilo vagamente montuoso dei palazzoni comunisti della capitale rumena). Perché malgrado la natura di kammerspiel affollato e spossante (eppure divertente: ebbene sì, è anche una commedia), l'ultima opera di Cristi Puiu esplora una nazione e un'umanità intera, brulicante negli angusti spazi di un appartamento di Bucarest, smarrita in un chiacchiericcio senza conclusioni, deambulante in falsi movimenti, che cerca l'evasione in aperture all'esterno segnate da una claustrofobia perfino maggiore (la prima, all'inizio, filmata in un indagatore e clamoroso campo lungo, segnata dall'indecifrabilità del chi dice cosa e perché, inchiodata a un angolo di strada congestionata dal traffico; la seconda, intrappolata in un parcheggio che dà la stura a una violenza urbana malamente tenuta a freno per poi rintanarsi in una dolente confessione snocciolata di spalle nell'abitacolo di un'auto). Dopo l'odissea ospedaliera del signor Lazarescu e il girovagare anaffettivo del killer senza qualità di Aurora, Cristi Puiu opta per uno stridente e fluviale (s)concerto da camera in cui la verità, invocata e irrisa, ufficiale e ufficiosa, pubblica e privata, si schianta a ogni porta socchiusa o angolo di corridoio. Quella verità da cui il cinema romeno degli ultimi anni sembra ossessionato (il parallelo con le opere di Mungiu, Porumboiu, Netzer è inevitabile), alla strenua e vana ricerca degli strumenti per definirla e/o occultarla, impantanata in una burocrazia intrisa di assurdo. Tutto questo tradotto in un impressionante tour de force di messa in scena che non ha mai nulla di esibizionistico, scandito sapientemente tra piani sequenza in campo medio e primi piani, con attenzione inesausta al punto macchina che panoramica a scatto attraverso gli ambienti cercando di intercettare le forze centripete e centrifughe, con intenzioni sinottiche ovviamente frustrate.
Pur prendendo a baricentro dell'animato corteo di personaggi in scena la figura disincantata e stancamente razionale di Lary, ex medico sottilmente sarcastico ma pronto alla mediazione, Puiu piazza l'obiettivo, mobile e scrutatore, ad altezza d'uomo e a una distanza media da tutti, vicina abbastanza per afferrare l'overlapping dei dialoghi in cui si affastellano su scala intima e globale paranoie complottiste e nostalgie del regime, ansie neo-consumiste e rigurgiti post-comunisti, farse coniugali e desideri di fuga, ma al tempo stesso attenta a non invadere troppo lo spazio altrui, rispettosa delle stanze chiuse. Aspira a una posizione ferma sullo stato delle cose, deve accontentarsi di un punto di vista logisticamente parziale, imparziale esistenzialmente, spesso esitante nel disimpegno dell'abitazione. A chi appartiene lo sguardo che in Sieranevada tenta di sbrogliare questa nervosa matassa familiare? È quello di noi spettatori, ulteriori invitati a un pranzo buñuelianamente sempre rimandato, che ci spingiamo a scorgere ciò che c'è oltre l'uscio, dietro la parete, tra le righe dell'ennesima biascicata discussione? O è l'occhio del defunto (come lo stesso regista ha suggerito) per la cui commemorazione a quaranta giorni dalla morte la famiglia si riunisce? Emil, il deceduto, è lo spettro di un passato con cui fare ancora i conti, una presenza/assenza ingombrante, i cui abiti troppo larghi uno dei nipoti è costretto a vestire in una grottesca mascherata (composti in una sagoma su un letto, quasi fossero prelevati dalla scena di un delitto), unico nebbioso punto di riferimento nell'assenza totale di fulcri identitari, tranne quelli incistati in una tradizione passivamente inoculata (il matriarcato di facciata, il rito ortodosso, la panacea della religione alla quale anche la figlia recalcitrante alla fine soggiace). Non ci sono soluzioni né salvezze né pacificazioni, l'esorcismo delle paure e dei fantasmi contemporanei fallisce, ma dalla famiglia di Sieranevada non si scappa, ci siamo dentro fino al collo anche noi, in cerca disperata di un orientamento o dimenticati in una stanza, come la ragazza croata ubriaca. Non rimane che riderci su: una risata inerme però, non liberatoria, unico atto di resistenza al caos, prima di cominciare finalmente a mangiare, tra gli avanzi di una Storia impossibile da ricostruire.
Dal (presunto?) boom del cinema rumeno sono passati ormai dieci anni: Cristian Mungiu vinse la sua palma d'oro nel 2007, due anni dopo che Cristi Puiu, sempre sulla Croisette, si impose all'attenzione della cinefilia internazionale con il suo La morte del signor Lazarescu. La presenza di entrambi nel concorso dell'edizione 2016 suggerisce che qualcosa sia rimasto anche dopo l'inevitabile e fisiologica risacca. È assai indicativo, in questa chiave, paragonare Sieranevada all'exploit di Puiu del 2005. Se quest'ultimo si fregiava di una perfetta integrazione tra un testo ultrascritto e una regia ultracontrollata, nella sua nuova fatica queste due dimensioni mancano la reciproca sintesi: è come se l'una e l'altra fluttuassero ognuna per conto proprio, rinunciando al contatto.
Una pecca? Non proprio. Non se si tiene conto della radicale diversità del progetto in questione. Protagonista di Sieranevada è un ex dottore (oggi venditore di apparecchiature mediche) di mezz'età, sposato a una poco sopportabile maniaca del controllo e quindi vagamente passivo, spento, opaco, stanco, ma dotato di robuste dosi di buon senso e disillusa saggezza quotidiana. La quasi totalità del film ha luogo dentro un unico appartamento, teatro di una riunione famigliare allargata di cui all'inizio stentiamo a capire ragioni e propositi. Man mano che le informazioni ci vengono distillate letteralmente con il contagocce, capiamo che si tratta di una veglia funebre per il padre morto, che non si vede mai. E man mano che storie e personaggi intorno a lui si delineano, il protagonista stesso si trova costretto a rinunciare alla posizione di distaccata, sorniona invisibilità in cui egli ama raggomitolarsi.
È questa posizione (quella di un sociopatico troppo intelligente per non essere capace di nasconderlo benissimo) che mima la regia: frequentemente, la cinepresa si piazza in un punto fisso e panoramica a destra a sinistra per seguire svogliatamente, come sbadigliando da un'inerte posizione di indifferenza (e non senza cadere in qualche plateale svarione di montaggio...), la molteplicità di percorsi e direzioni che i personaggi intrecciano incrociandosi. Il più delle volte, lo fa da un corridoio, dal quale rimira il quieto caos di porte che si aprono e chiudono, di gente che entra e esce per fare cose di cui senza dubbio ci disinteresseremo appena davanti agli occhi ci se ne pareranno altre.
Con lo srotolarsi della frastagliatissima narrazione, l'opaco protagonista finisce infine per rivelarsi. Ma cosa rivela? Null'altro che la propria opacità – la quale semplicemente da implicita (e allusa soprattutto dallo stile) passa ad esplicita, e viene con questo sigillata quale tragicamente invalicabile. Il protagonista è un “né... né”: né un fedifrago che la fa franca con la complicità di una moglie omertosa, né un fedifrago la cui infedeltà fa esplodere il caos famigliare (e del resto, il furbissimo gioco col fuoricampo che Puiu ingaggia di continuo nelle sue immagini, si lascia tranquillamente definire come: né in campo, né in fuoricampo). Sta a mezz'aria, sospeso, imprigionato nella propria opacità. Due, le consolazioni che gli permettono nonostante tutto di tirare avanti. Una è la risata ironica, dall'effetto temporaneo ma sempre a portata di mano. L'altra è avere ragione quando l'immancabile parente complottista si arrampica sugli specchi, agganciando insieme 11 settembre, Charlie Hebdo e chi più ne ha più ne metta, avventurandosi nella faticosa ricostruzione di una totalità. Al centro della totalità, al netto di qualsiasi ricostruzione, non può esserci che il vuoto. E il protagonista, questo vuoto loè.
È dunque giusto che la regia di Puiu, nel tentativo di tenere insieme i numerosi fili del racconto, non solo accetti di sfilacciarsi copiosamente, ma anche indulga in uno zelo coreografico a grosso rischio di essere fine a se stesso, e di sganciarsi dalla narrazione. Come in uno Jancsó paradossalmente senza più illusioni politiche (ma il film che davvero viene alla mente è, assai inaspettatamente, Segreti e bugie di Mike Leigh), a dovere essere mostrato non è un meccanismo perfetto, ma il vuoto al centro del meccanismo.