Drammatico, Sala

VICTORIA

Titolo OriginaleVictoria
Anno Produzione2015
Genere
  • 68183
Durata138'
Scenografia
Musiche

TRAMA

Victoria, una giovane donna spagnola, incontra quattro ragazzi all’esterno di un club di Berlino. Quello che inizia come un gioco, improvvisamente diventa terribilmente serio.

RECENSIONI


Gli occhi pare quasi di aprirli per la prima volta, all’inizio di Victoria.
Una nascita, l’inizio di un sogno o un’uscita dal coma; un risveglio improvviso su un mondo che si spalanca lentamente, esibendosi per 140 minuti senza la menzogna spazio-temporale insita nel montaggio. C’è una forte componente atavica nel passaggio dal nero dei titoli di testa alla luce stroboscopica del locale in cui si apre il film: ci sono ombre, silhouette di figure prive di qualsiasi fisicità che si muovono su un primordiale tappeto sonoro di minimal-trance, c’è una danza istintiva e ossessiva, introspettiva e libera. E mentre la vista inizia ad abituarsi all’intermittenza epilettica del luogo, la macchina da presa trova finalmente un corpo su cui appoggiarsi. Non lo abbandonerà più.
Non lo abbandoneremo più. Perché come accadeva in Arca Russa, anche il lunghissimo piano-sequenza di Victoria vuole porre l’accento sulla sua natura di simulacro dell’istanza spettatoriale, riflettendo sull’equiparazione tra lo sguardo della macchina da presa e quello del soggetto che osserva. Certo, le similitudini tra i due film finiscono qui: laddove Sokurov ambiva a sostituirsi a Dio nell’orchestrare una coreografia imponente e sontuosa, in cui tale riflessione era esplicitata attraverso un uso insistente della voice-over (“Apro gli occhi e non vedo niente”), il film di Sebastian Schipper punta al maggior realismo possibile, nascondendo la soggettività della macchina da presa e l’orchestrazione degli eventi in una sorta di pedinamento post-zavattiniano, vicino spesso alla frenesia di un Greengrass o di un Mendoza. Gli occhi dell’operatore (Sturla Brandth Grøvlen, giustamente il primo nome citato nei titoli di coda) si fondono allora in modo definitivo e senza filtri con quelli dello spettatore, la sua posizione sul set e nella storia diventa la nostra: siamo noi, presenze invisibili, a seguire Victoria in quella che sarà la notte più folle della sua vita. Ed è proprio questa libera prossimità alla vicenda narrata ad essere il perno su cui poggia l’intera operazione: con la ragazza spagnola condividiamo non solo lo spazio, ma anche il tempo, tutto, senza ellissi o interruzioni. Nello sguardo e nei movimenti della bravissima Laia Costa (ma gli altri interpreti non sono da meno) cogliamo tutta la solitudine del suo personaggio, tanto che il desiderio di farsi nuovi amici nella Berlino in cui si è trasferita da poco ci pare quasi di toccarlo con mano. Dall’altra parte, un gruppo di sbandati, “real berlin guys" come si definiscono all’inizio, legati da un’amicizia profonda e inossidabile (“we can say family”), che passano le notti tra qualche piccolo furto, tante chiacchiere, un paio di birre e assolutamente nessuna prospettiva futura. Alla fin fine è questo che traspare dal pedinamento notturno di Victoria: il travolgente senso di smarrimento di un’intera generazione, votata alla sconfitta (eccola, la drammatica ironia che si cela dietro al nome della protagonista che dà il titolo al film) nel cuore dell’Europa. Una generazione che deve autoconvincersi costantemente di possedere tutto per sopperire al fatto di non avere nulla (“it’s my car”, “it’s my shop”, “we have a personal roof”…) e di non essere nulla (“I’m a professional piano player”), che continua a muoversi da un luogo all’altro senza una vera meta, una generazione le cui esistenze sono talmente radicate in un eterno presente che è possibile comprimerle entro i limiti spazio-temporali di un piano-sequenza.
Ma se il futuro non esiste in Victoria, il passato è invece sempre doloroso e aperto, pronto a ripresentarsi in forme diverse per tormentare o sconvolgere la quotidianità dei personaggi. Da un lato infatti c’è il sogno adolescenziale della ragazza di diventare una pianista professionista, brutalmente infranto dai suoi stessi maestri di conservatorio e dalla competizione malsana del settore (perché, con buona pace di folli e sognatori, col cavolo che i sogni si realizzano, seppur a costo di qualche sacrificio affettivo: i sogni, più spesso, restano tali e da un giorno all’altro ci si ritrova a servire caffè e cioccolate calde in una città straniera per 4 euro all’ora); dall’altro invece, c’è il criminale conto in sospeso di uno dei ragazzi della compagnia, che proprio quella notte chiederà a gran voce di essere saldato. Un sogno infranto e un conto in sospeso, il peso insostenibile di un passato che ritorna, un tormento interiore che cerca conforto e un’improvvisa impresa criminale il cui esito tragico è palpabile fin dalle prime battute: rimasticando in parte alcune delle costanti più frequenti nella letteratura critica sul noir e sui suoi oscuri protagonisti senza speranza e ribaltando la vicenda attraverso un twist narrativo davvero inaspettato, Victoria riesce perfino a stimolare un’interessante lezione sul genere. Facendo letteralmente esplodere quest’ultimo all’interno di un racconto che da un punto di vista stilistico (pare che la sceneggiatura sia una bozza di una dozzina di pagine) ricerca il realismo e la maggior naturalezza possibile, Schipper sembra dirci che il genere (in questo caso è il thriller a farla da padrone) non è una sovrastruttura che piega la vita alle sue ferree regole e alle sue convenzioni, bensì un modello che appartiene in tutto e per tutto all’esistenza, ad un certo tipo di quotidianità che è più vicina a noi di quanto ci si potrebbe aspettare.
Ritrovarsi bruscamente catapultati nel vortice, alla fin fine, non è poi così impensabile: bastano un sogno infranto, un po’ di solitudine e quel senso di disorientamento esistenziale che sembra essere la cifra predominante di tutta una generazione.