TRAMA
Fine estate. L’anziana Louise perde l’ultimo treno dalla località balneare di Bilingen. Rimasta sola, affronterà l’inverno insieme a un cane parlante e ai propri ricordi, tornando con la mente all’infanzia, alla guerra, ai primi amori, a una realtà dispersa nel tempo e nelle falle della memoria.
RECENSIONI
Le stagioni di Louise, Louise en hiver nel titolo originale: è chiaro che si parli di stagioni della vita, soprattutto dell’ultima, evocando una circolarità in cui il tempo interiore torna sempre sui suoi passi, passi tracciati nella sabbia, impronte destinate ad affievolirsi fino a scomparire. Les plages de Louise si potrebbe dire, parafrasando quelle di Agnès (Varda), che nel 2008, ottantenne, sceglieva il mare come location dei propri ricordi, luogo eletto in cui filmare il proprio vissuto, comporne i frammenti e frammentarli nuovamente in installazioni di specchi, fra documentazione autobiografica e immaginazione poetica. Jean-François Laguionie, dopo il corto La Demoiselle et le Violoncelliste (La fanciulla e il violoncellista, 1965), struggimento marittimo e musicale e La Traversée de l'Atlantique à la rame (La traversata dell’Atlantico a remi, 1979), drammatica epopea oceanica che gli valse la Palma d’Oro a Cannes per il miglior cortometraggio, torna settantasettenne, ancora una volta, al mare, animando, nel suo stile rarefatto e pittorico, un diario della solitudine e della persistenza. E della sussistenza, perché l’anziana Louise crusoeianamente s’ingegna a sopravvivere su un pezzo di sabbia col mare davanti e il niente intorno. Determinata, a tratti indispettita dall’abbandono degli altri bagnanti, tuttavia fiduciosa nel loro ritorno, Louise vive adattandosi ai giorni e raccontandoceli diaristicamente con la voce originale di Dominique Frot, Piera Degli Esposti nella versione italiana. Ma al tempo presente si affianca un senso di attesa di qualcosa che sembra non arrivare mai (la nuova stagione, i vecchi bagnanti, un vociare che certifichi l’esistere, come il cane che, parlando, si dimostra raziocinante) di un futuro, ciclicamente probabile, tuttavia incerto; e del passato, immobile e compiuto, che attende che gli si faccia visita: il soldato impiccato all’albero, ben oltre lo scheletro-spettro (figura ricorrente nel regista), è un corpo, tanto reale quanto inerte, immagine dolorosa che rappresenta un’epoca intera, l’orrore concreto della guerra, i primi dispettosi amori, un mondo al quale Louise torna sempre meno, perché ha cominciato a dimenticarlo, non certo per cattiveria, ma per sbadataggine, perché in una vita intera c’è tanto da fare. Non gliene voglia il passato se Louise, dopotutto, è stata felice e forse lo è ancora. Dunque, la citata Persistenza (della memoria, con i suoi orologi molli), è un luogo mutevole, perché è un luogo mentale, come il tempo, come il mare di Louise, chiaro scenario surreale e subconscio.
L’animazione può dove la realtà si ferma, e può con realistica naturalezza accompagnarci anche in un sogno, in un pensiero o in uno spazio simbolico (in un dipinto di Magritte, per esempio).
Così, lo stile collaudato di Laguionie è ancora una volta un percorribile spazio pittorico dagli sfondi bidimensionali, da animazione classica vecchia scuola, ma in questo caso unita al 3D o, meglio, all’animazione in CGI. In che modo? E perché? È infatti interessante, quanto poco chiaro, come in questa fase di passaggio in cui l’animazione 2D sta scomparendo per lasciare il posto alla Computer Graphics, in cui perfino studi di animazione storicamente legati alla bidimensionalità, come Studio Ghibli, sembrano chiudere bottega (o si adegueranno alla nuova tecnica?), è poco chiaro perché la ricerca sulla CGI spinga talora in direzione della resa 2D, come in questo caso. E il paradosso sembra presentarsi anche alla rovescia: il disegno in 2D di partenza che approdi a una resa 3D. In merito a questa affascinante questione che si presenta in uno stadio transizionale delle tecniche di animazione, quale quello attuale, cominciato da più di un ventennio, Michele Sottile, animatore CGI in Francia, ci spiega:
L'imposizione della CG al cinema la si colloca tradizionalmente alla fine degli anni ‘90 con l'ascesa della Pixar e del suo bestiario di giocattoli e formiche, ma la commistione con il 2D risale alla fine degli anni ‘80 ed ha visto progressivamente una inversione delle parti. In Taron e la Pentola Magica (1985) e Basil l'Investigatopo (1986) essa semplifica il lavoro degli animatori nella realizzazione di elementi seriali (bolle e pentole nel primo) o di complicate strutture meccaniche (tutto l'interno del Big Ben nel secondo). Tale pratica si estende negli anni ‘90 dove interi ambienti 3D vengono realizzati per facilitare movimenti di camera piuttosto complicati (la fuga di Aladdin dalla Caverna delle Meraviglie, la sequenza di ballo in La Bella e la Bestia) o per moltiplicare esponenzialmente il numero di alcuni personaggi (la carica degli gnu in Il Re Leone) fino ad arrivare all'ibrido più sorprendente nel personaggio di Silver de Il Pianeta del Tesoro (2002), pirata cyborg (personaggio quindi ibrido già di suo) dove le parti meccaniche sono CG mentre quelle umane meravigliose matite di Glen Keane. L'enorme successo della Pixar ha portato alla progressiva estinzione dell'animazione tradizionale, almeno nel cinema mainstream, con gli executives che adducono come pretesto il maggiore appeal della CG nel pubblico più adulto. Le motivazioni sono senza dubbio di carattere produttivo, più che artistico, ma non certo quelle che ci raccontano, perché film come Louise en hiver dimostrano che c'è ancora voglia di quella resa, di quella stilizzazione, perché meglio si presta al tipo di storia raccontata. In questo caso si voleva rimanere quanto più fedeli agli acquerelli del regista Jean-François Laguionie senza però rinunciare agli indubbi vantaggi delle moderne tecnologie. Le animazioni in CG, pur ponendo più vincoli (la libertà del binomio mano-matita è impareggiabile), permettono un controllo maggiore sui singoli elementi (è possibile ritoccare in tempi brevi e indipendentemente ogni singola parte del personaggio) e non richiedono grandi talenti del disegno, avendo alla base un modello già pronto dal quale è difficile andare off-model (se non di proposito).Tecniche di rendering apposite (come il cell shading) permettono di appiattire ombre e volumi, semplificando l'illuminazione ed ottenere una resa 2D.
Ultimamente la Disney ha sviluppato innesti sempre più raffinati come nei corti Paperman e Feast dove le due tecniche arrivano praticamente a sovrapporsi e non semplicemente ad affiancarsi, grazie al software Meander, per sfruttare i vantaggi dell'una e dell'altra tecnica. Tuttavia, almeno per ora, il processo è lungo e costoso e l'idea di realizzarci un lungometraggio è stata abbandonata. Con Moana si è tornati quindi a una classica coesistenza delle due tecniche, ma stavolta a ruoli invertiti. Il film è completamente in CG mentre si è scelto il 2D per gli stilizzatissimi tatuaggi viventi del semidio Maui. L'ultimo grande passo lo sta realizzando Sergio Pablos, ex animatore Disney, col suo Klaus, progetto che si annuncia rivoluzionario perché punta a ribaltare completamente le carte in tavole e creare un 2D che sembra CG, quindi disegni tradizionali dai quali si ricava una geometria che permette di godere delle recenti e sofisticate tecniche di illuminazione e dare quindi al pubblico quello che, sempre secondo i suddetti executives, esso desidera, perché meno “puerile”. È estremamente probabile che questo nuovo sistema apporti nuovi vantaggi, ma per ora tutto è avvolto nel mistero e bisognerà attendere ancora un po' prima che il film esca nelle sale e dimostri che il gioco sia valso la candela.
Louise en Hiver è dunque anche dal punto di vista della tecnica un dialogo fra passato e presente che va ben oltre il meccanismo nella nostalgia, preservando il tratto originario con il quale il suo autore dà vita al proprio immaginario poetico, ma servendosi di strumenti nuovi e più agili, ammiccando alla contemporaneità come Louise ammicca al proprio solitario destino, con quell’aria vaga che a volte accompagna il suo senso pratico, i suoi giorni strani e ordinari, quasi a instillare il dubbio che i tempi e le stagioni, la giovinezza e la vecchiaia, rimescolino le loro carte più di quanto si immagini e l’inverno prenda le sembianze di un lunghissimo altrove.
