Horror

ERASERHEAD

TRAMA

Henry è un tipografo che vive in un’inquietante quartiere popolare._x000D_
Invitato a cena dalla fidanzata scopre di essere diventato padre di un bimbo prematuro._x000D_
La sua nuova vita sarà insostenibile.

RECENSIONI

In principio era il rimosso.
Per David Lynch il cinema è un universo mentale, è la nostra mente che crea le 'realtà' che ci circondano, quell'insieme misterioso di mondi perlopiù alterati dove (non) sempre è meraviglioso perdersi. Ecco quindi che la sequenza iniziale di Eraserhead, in stretto legame con le sperimentazioni visive dei primi cortometraggi, funge da subito come manifesto della poetica del regista. La testa di Henry volteggia nello spazio e, in sovraimpressione, cerca di allinearsi con una strana struttura sferica verso cui ci avviciniamo lentamente. Stiamo entrando dentro la testa del protagonista, stiamo per esplorarne i segreti. Ma di che segreti si tratta? Se riflettiamo sulla semplicità drammaturgica di Eraserhead ci rendiamo conto di come l'atto creativo, sessuale, sia l'incubo per eccellenza, che trova nel terrore della paternità la sua manifestazione. Tutto il film è pieno di disturbanti tic, di allusioni all'amplesso e alle sue possibili conseguenze, mostrandosi come la vera ossessione del personaggio, dietro la cui maschera, apparentemente impassibile, ribolle un profondo malessere. Il cinema di Lynch però è sempre stato assertivo dell'impossibilità di isolare un trauma fondante, perché questo ha comunque vita propria e, in un modo o nell'altro, prenderà forme tangibili con le quali bisogna fare i conti. L'incipit di Eraserhead quindi è leggibile come la sintesi di ciò che è stato rimosso ovvero l'atto sessuale tra Henry e Mary, quel non detto e dimenticato che ha dato origine al feto prematuro. La bocca del protagonista si apre (coito), ne fuoriesce uno spermatozoo che precipita dentro un liquido (amniotico) presente in quella sfera che ora non può non essere letta come un ovulo inseminato. A tirare le fila, in uno scorcio espressionista, vi è un demiurgo dalle sembianze deformi che anticipa la fisionomia di John Merrick o del Barone Harkonnen e attiva questo meccanismo di fertilità. E a colpire è il mondo nel quale nasciamo, un inferno apocalittico, dove i tubi hanno sostituito gli alberi, dove la materia industriale giganteggia nella sua avvolgente e ipnotica lingua sonora. Non bisogna allora stupirci di come anche l'atto più naturale come la procreazione abbia perso tutta la sua componente vitale e assuma la forma di un gelido processo di produzione.

Seguiamo Henry di rientro a casa, un piccolo freak dalla buffa capigliatura che sembra uscito per sbaglio da una comica di Buster Keaton. I tempi però sono dilatati, i tagli di montaggio leggermente ritardati, così da rendere la gag iniziale del piede nella pozzanghera, ennesima allusione a quanto rimosso, fuori tempo. La slapstick vira nel grottesco e spiazza, spiazza allo stesso modo dell’allucinante ritratto della famiglia di Mary in cui la commedia patologica dei suoi componenti inquieta, barcollando nel sottile confine del nonsense. Nel susseguirsi delle psicosi, Henry si sente fuori contesto e sembra l’unico normale. Qualcosa però non torna nel portamento del ragazzo e non a caso, appena si trova messo alle strette e deve accettare la futura paternità, inizia a sanguinare dal naso. E’ una questione di psicosomatica, il corpo emette la sua sentenza, non si può mentirgli. L’emorragia e la fuoriuscita di fluidi è una delle fissazioni di Lynch fin dai suoi primi esperimenti, chiaro richiamo alla venerazione che l’autore ha sempre avuto nei confronti del pittore Bacon. In Six Figures Getting Sick e in The Alphabet i personaggi esplicitavano il loro malessere interiore vomitando, in un riflusso fisiologico che rende materiale il conflitto in atto. Perché, nonostante vengano messi in scena i misteriosi funzionamenti dell’inconscio, we’re dealing with human form. Qualcosa allora vacilla nella costruita sicurezza di Henry: intrappolato nel ruolo di padre, con una moglie che se la dà a gambe levate e un neonato mostruoso da accudire, l’alternativa è trovare una via di fuga nell’immaginazione. E non c’è niente di più lynchano che il sogno come rappresentazione illusoria, alternativa, di una realtà con la quale non si vuole fare i conti. Improvvisamente allora, dietro un radiatore, Henry trova il Paradiso.

A circa metà film, Henry si addormenta ed entra nel cuore del suo desiderio. Ad aspettarlo in un metafisico teatro, prototipo della futura Loggia Nera e di tutti quei (non)luoghi di passaggio, c’è una donna bionda con due ingombranti escrescenze sulle guance. Questa proiezione dell’ideale verso cui abbandonarsi manifesta ulteriormente la paura del concepimento, in un tip-tap fuori ritmo che spappola con godimento un numero imprecisato di spermatozoi caduti dall’alto. La Lady in the Radiator quindi assume una valenza prenatale, una pulsione di annullamento che vuole letteralmente cancellare l’incubo reale in cui Henry è bloccato. Prestiamo attenzione all'elemento deforme, le guance, anche in questo caso allusione sessuale, nello specifico ai testicoli. Il protagonista, nella graduale perdita del senno, desidera ardentemente riconnettersi, scappare, a una realtà altra priva di responsabilità, che assecondi le sue pulsioni più sfrenate, dal tradimento con la vicina di casa fino all’infanticidio. Siamo ancora molto lontano dai misteri dell’Amore dei film successivi. David Lynch innesca un cortocircuito mentale dove la ricerca della luce non ha niente a che vedere con la trascendenza, e quindi con la consapevolezza di sé. Henry non vuole comprendere, Henry, detta brutalmente, vuole morire, vuole scappare dall’inferno in cui vive e, quella che sembrava una goffa ingenuità, un faccione calmo e passivo, diventa la messa in atto del lato più oscuro (e più vero) dell’animo umano. Lo sbudellamento del figlio, in una delle sequenze più raccapriccianti e dolenti di tutta la filmografia dell’autore di Missoula, è il punto di non ritorno che spezza il meccanismo illustrato nell’intro dell’opera. Nel susseguirsi di suggestioni visive e sonore, siamo ricatapultati nello Spazio e questa volta quell’asteroide sferico si frantuma, annientando il demiurgo che vi abita. La testa di Henry è così cancellata e non rimane altro che un appagante sogno di luce accecante dove non serve più tenere gli occhi aperti. Mai vi fu luce più oscura di questa. 

Eraserhead fu una vera e propria Odissea produttiva, che portò il regista sull'orlo del fallimento. La tenacia di David Lynch però venne premiata con la creazione di un gioiello che tra i vari estimatori aveva nientemeno che Stanley Kubrick. Opera low-budget in cui Lynch curò pressoché tutto, dalla scenografia al montaggio, Eraserhead è un unico nel suo genere, un cult che ancora oggi stupisce per come è in grado di creare un'avvolgente e disturbante visione. Ricco di influenze pittoriche (Metafisica, Espressionismo, Magritte, Bacon, Kokoschka), capace di rielaborare il cinema delle origini con le suggestioni da B-movie, si contraddistingue nella decostruzione della linearità narrativa in cui più livelli si confondono e non sono mai totalmente scindibili l'uno dall'altro. All'aspetto visivo però si aggiunge quella che probabilmente è una delle intuizioni più geniali dell'operazione ovvero l'uso del sonoro. Anche in questo caso Lynch gioca con lo statuto e l'origine del suono, creando un violento conflitto tra il piano diegetico e quello extradiegetico, tra il piano reale e quello immaginario. Ne viene fuori un'esperienza quasi ipnagogica dove lo spettatore accompagnato da composizioni post-industrial e da musica concreta, resta in balìa dei continui shock e suggestioni proposti. Proiettato per la prima volta il giorno della Festa del Papà. Macabra coincidenza.