Drammatico, MUBI, Recensione

VI PRESENTO TONI ERDMANN

Titolo OriginaleToni Erdmann
NazioneGermania, Austria, Svizzera, Romania
Anno Produzione2016
Durata162'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Ines lavora come consulente aziendale a Bucarest. Un giorno, all’improvviso, giunge in città il padre sotto mentite spoglie. L’uomo, convinto che la figlia abbia perso la gioia di vivere, decide di trasformarsi in Toni Erdmann; così cambia aspetto e comincia a tormentarla con scherzi e battute.

RECENSIONI

Dopo un secondo film capace di portare a casa il Gran Premio della Giuria alla Berlinale 2009 (Alle Anderen), dopo una contenuta ma significativa attività di produttrice con la sua etichetta Komplizen Film (che ha contribuito, fra l’altro, a tutti gli ultimi lavori di Miguel Gomes), Maren Ade approda in concorso a Cannes e si conferma fra le più fulgide realtà del cinema europeo contemporaneo.
Il suo Toni Erdmann punta in alto: al centro c’è, nientemeno, che la Crisi Dei Padri, il venir meno dell’autorità paterna nel mondo di oggi. Certo Ines, tedesca in carriera di stanza a Bucarest per conto della compagnia per cui lavora, un padre ce l’ha. Si tratta dell’eccentrico Winfried: è in pensione, ha un cane, dà lezioni di piano, e per il resto fa lo zuzzurellone per non annoiarsi troppo. Prevedibilmente, la trasferta all’estero per visitare la figlia workaholic, ambiziosa e rigida come un pezzo di legno, naufraga nel fallimento umano e nell’imbarazzo. Ma Winfried non si dà per vinto. Si inventa un alter ego immaginario (Toni Erdmann) con tanto di parrucca e denti finti, e si infiltra nella vita della figlia, imbarazzandola sistematicamente in ogni situazione, per insegnarle a vivere. Cosa che, naturalmente, neppure lui sa fare – ma il punto è proprio questo.
Facile andare a schiantarsi, quando si punta tanto in alto. Se non è il caso di Toni Erdmann, è perché Ade dimostra di essere tra le poche ad aver capito benissimo a cosa serve, o a cosa potrebbe idealmente servire, il digitale. Il digitale serve, molto semplicemente, a creare condizioni di ripresa sufficientemente leggere affinché si riesca a lavorare (molto) meglio con gli attori. E qui lavorare bene con gli attori è vitale, perché in un film del genere la giusta intonazione degli attori è tutto, visto che l’intera riuscita dell’operazione dipende dall’indovinare un tono molto preciso e molto difficile da raggiungere: è quel “magico” punto, già toccato in Alle Anderen, per cui un film dalla precisissima e certosina costruzione e concezione, forte di una regia solidissima, che sa benissimo cosa vuole, dove posare lo sguardo, e quanto farlo soffermare (e a questo riguardo, non si può non rilevare con quanta abilità qui vengano gestiti i tempi comici: arte ormai in via di sparizione…), sembri anche in ogni istante impercettibilmente e sapientemente traballante, assolutamente aperto sul presente e come improvvisato (cosa che non è affatto), radicalmente incerto circa la direzione da seguire.

Perché in fondo è proprio questa la lezione che Winfried/Toni ha da insegnare alla figlia: che lezioni su cui contare, tutto sommato, non ce ne sono. Lezione che sembra banalmente sessantottarda (come probabile sessantottardo è in fondo lo stesso Winfried/Toni), ma che si rivela tanto più preziosa nel mondo corporate in cui vive Ines, che va dritto come un treno, sicuro della propria efficienza burocratico-amministrativa. È un mondo, quello, che ha di fatto espulso il principio “paterno” dell’autorità simbolica, e dunque della responsabilità: tutti vogliono licenziare e delocalizzare dove il lavoro costa meno, ma nessuno vuole farlo in prima persona e quindi tutti si passano la patata bollente a vicenda. E se il principio del paterno, dell’ordine simbolico, non vige più, l’unica legge è la propria immagine, essa stessa vitale per il buon funzionamento degli affari. Se sul trono non c’è più il padre, a regnare è lo specchio. E Toni, il fittizio manager (nonché coach) inventato da Winfried, fa in fondo proprio questo: innanzi a un mondo in cui regna lo specchio, egli oppone uno specchio deformante.
In questo modo, egli riesce finalmente a incrinare la vita di Ines, a farle deporre la vana velleità di fare a meno della paterna autorità simbolica e a controllare ossessivamente la propria immagine, e a farla abituare invece a una dolorosa incertezza strutturale che infatti viene riprodotta con successo anche dalla studiatamente ondivaga struttura del film. L’autorità simbolica, oggi, dopo il suo apparente tramonto, non è un appiglio che fornisce (false?) certezze, bensì uno scomodo ma imprescindibile memento su quanto siano sempre e inevitabilmente traballanti le basi che per comodità presumiamo ferme.
E così il ’68, il cui libertarismo paradossalmente aprì la strada proprio al contemporaneo trionfo della deregolamentazione neoliberista e dunque del mondo corporate in cui sguazza (con qualche arranco) Ines, nella persona di Toni propone nientemeno che la riscrittura retroattiva del lascito sessantottino: propone cioè il recupero dell’autorità paterna, senza dubbio ridefinita e reinventata ma pur sempre ripristinata.