TRAMA
Il giovane Desmond Doss, cresciuto a Lynchburg, Virginia, è stato accudito secondo la fede della chiesa cristiana avventista del settimo giorno e ha una rinforzata credenza nel comandamento sul non uccidere da quando ha per poco ucciso accidentalmente suo fratello minore…
RECENSIONI
Ispirato alla vita e agli atti di eroismo di Desmond T. Doss, obiettore di coscienza avventista, Hacksaw Ridge è un film apparentemente didattico, inattaccabile nella sua cristallina e anestetica evidenza; un’opera che, a differenza dell’ideologicamente ed esteticamente ributtante The Passion of the Christ, non offende (quasi mai) il buon gusto e non rinnega o nasconde le sue finalità, la sua vocazione evangelica: trasmettere la buona novella attraverso la finzionalizzazione di una pagina storica (la battaglia di Hacksaw Ridge, una delle più cruenti della Guerra del Pacifico) e biografica.
Il timore pregiudiziale di assistere ad un soporifero “centone” sembra inverarsi nei primi stucchevoli trenta minuti. Il film, infatti, inanella nella sua prima parte situazioni narrative imbevute di cliché di genere (ragazzo con padre reduce violento e credentissimo incontra infermiera illibata il lunedi e parte per il fronte il fine settimana) e sposa una “maniera” più regressista che (post)classicista: colori saturi come in un film di Cecil B. De Mille o di Victor Flaming ma senza la stilizzazione di un War Horse, dialoghi telefonati come in una qualsiasi pagina biblica citata a memoria durante una lezione di catechismo. Ci si chiede, al tempo stesso allarmati (Gibson può far meglio) e rassicurati (Gibson può far peggio), che fine abbia fatto l’autore che abbiamo amato odiare, il regista di cui mai abbiamo messo in dubbio le qualità di coreografo alla Peckinpah e di cui abbiamo sovente stigmatizzato l’effettistica da chierichetto megalomane (la lacrima-pioggia del Dio del Christ rimarrà una macchia indelebile).
Pur rendendo conto della lacerazione interiore di un credente, accecato dalla fede, il racconto schiva e rigetta il dubbio, evita che sfumature e ombre anche minime alterino la limpidezza del Verbo, della Verità: una, non trina. Il manicheismo impera ma, per fortuna nostra, nella seconda parte entra in palese conflitto con quella patologica e compiaciuta mostrazione della violenza che segna, fin dagli esordi, tutto il cinema grand-guignolesque dell’autore di Apocalypto.
È certamente questa insanabile contraddizione (tra la verità veicolata dal discorso in tempo di pace e il belligerante, spettacolarizzante, “esplosivo” sguardo dell’autore in battaglia) a rendere Hacksaw Ridge più interessante di quanto ci saremmo potuti legittimante aspettare. Gibson, evidentemente insofferente alla non-violenza, a sentimenti che non siano reazioni straniate e folli all’umana barbarie, a visioni che non siano impastate nel fango e impregnate di sangue, rompe le catene che imbrigliavano il suo sguardo e lascia sprofondare l’occhio in un abisso di orrore senza fondo. La « calamità » come calamita: la lotta e lo scontro, lo “splatter”, tragica quintessenza della guerra, esercitano su Gibson una tale presa da fargli sfuggire di mano il discorso ecumenico.
Dalla statica composizione alla pura coreografia, al puro agonismo. Dalla lezione alla reazione a catena, grazie a (o a dispetto di) Dio. Gibson vorrebbe realmente che la vita fosse un’interminabile battaglia contro un nemico invisibile, un martirologio energetico senza fine. Satura di ovvietà e non scevra di momenti di dubbio gusto, la parte bellica è salvata grazie e solo dalla “furiosa” messa in scena, ove l’ovvio interagisce prima e soccombe poi all’eccesso, le lacerazioni fisiche detronizzano quelle, tutt’altro che scorsesiane, dello spirito, il Corpo si impone sul Verbo. Tutte le insanabili contraddizioni del cinema di Gibson, un incoscente che racconta la vita di un obiettore di coscienza (sic), trovano un’efficace sintesi visiva nelle sequenze che si svolgono sul dirupo. Soglia tra il limbo dell’accampamento americano (in basso) e il campo di battaglia (in alto), il dirupo è il luogo del “passaggio”: dall’ordine al caos, dalla normalità alla follia, dal tedio all’eccitazione. Per Gibson, l’ascesi non purifica ma sporca e distrugge, in alto non si trova il paradiso ma l’inferno. Lassù, dove muore il Verbo e trionfano il Corpo e il Sangue, risplende per alcuni istanti un’idea di cinema tutt’altro che disprezzabile.
La qualità inequivocabile del Mel Gibson regista, da Braveheart in poi: la messa in scena dell’urlo di battaglia, del sangue e della violenza sulla carne. Un paradosso in un film incentrato sulla figura realmente esistita di Desmond Doss (prima dei titoli di coda, la sua testimonianza e quella di chi, ancora in vita, lo conobbe in azione), primo obiettore di coscienza a ricevere la medaglia d’Onore negli Stati Uniti. Nel suo essere fanaticamente devoto al verbo di Dio, Doss riallaccia il regista all’altra Passione di Cristo ma, a parte la scena finale di ascensione al cielo, Gibson non spinge il pedale in quella direzione e nella prima parte pare rifare, in modo meno raffinato e dialettico, il dimenticato e bellissimo film di Claude Autant-Lara Non Uccidere (1961): medesime le dinamiche dell’obiettore che rifiuta di appellarsi alla follia e dell’esercito che prova a rifiutarlo. Altri punti di contatto ci sono con Il Sergente York, anche se il tipo stralunato di Andrew Garfield, più che Gary Cooper, è stile Jimmy Stewart, quando interpretava ruoli in cui, per quanto “alieno”, era infine nel giusto. Parte la scena lunghissima del primo attacco all’Hacksaw Ridge, senza commento sonoro, crudissima in dettagli, budella, ralenti, schizzi di sangue e corpi incendiati. Più che condanna della violenza, epica della battaglia, morbosità dello sguardo. L’ambiguità è servita e/ma, in seguito, Gibson non smette più la parte bellicosa e la sua messinscena è magistrale, con descrizioni che sono parto della sua mente folle e non della sceneggiatura che non le contemplava. Immancabili, per il regista, le scene rese sopra le righe: l’attacco ritardato perché Desmond deve pregare; la scena della Bibbia recuperata a costo della vita; il gioco del calcio con le granate.