Recensione, Religioso, Storico

SILENCE

Titolo OriginaleSilence
NazioneU.S.A./ Messico/ Taiwan
Anno Produzione2016
Durata161'
Tratto dadal romanzo di Shûsaku Endô
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Diciassettesimo secolo. Due missionari gesuiti intraprendono un viaggio in Giappone per ritrovare il proprio mentore e indagare su presunte persecuzioni religiose.

RECENSIONI

Dove finisce Giuda e dove comincia Gesù? Questa, la domanda intorno alla quale si è strutturata gran parte della filmografia di Martin Scorsese. Una domanda il cui presupposto è, naturalmente, che le due figure siano, in un certo senso, poco distinguibili. Ed è così, in effetti, in un'ottica autenticamente cristiana: ciò che definisce il cristianesimo rispetto agli altri monoteismi è che, attraverso l'incarnazione, Dio si fa uomo – ma solo, appunto, abbandonando il divino. Ma se l'uomo raggiunge il divino solo quando la divinità è definitivamente irraggiungibile, allora è legittimo che sorga il sospetto che all'uomo basti essere lontano da Dio per essere vicino, e che nulla può avvicinare a Dio quanto l'indegnità ad accostarvisi. Il sospetto insomma sarebbe che Giuda sia ancor più Gesù di Gesù stesso. Restituire alle due figure la loro necessaria distinzione e ristabilire la loro originale gerarchia è il compito che Scorsese si è dato fin dai suoi inizi. Già in Mean Streets, Gesù-Keitel, incapace di spiegare a Giuda-De Niro che la Legge è ancora più trasgressiva della trasgressione, perché priva di fondamento intrinseco, cercava di espiare questo fallimento ricongiungendosi con l'amico in una catarsi sanguinolenta, ovvero operistica, ovvero pre-hollywoodiana (mossa, questa, genuinamente “new Hollywood”). Dopo aver transitato per anni tra un'eresia e l'altra, che sia il calvinismo di Schrader in Taxi Driver, l'ebraismo kafkiano di Fuori orario (il film che vanifica in un colpo solo l'intera carriera dei Coen), o l'idolatria dell'immagine in una nazione in cui fare Storia cominciava a significare fare massmediologia (New York New York, Toro Scatenato, Re per una notte, Il colore dei soldi eccetera), Scorsese affrontò la questione di petto ne L'ultima tentazione di Cristo – ma la controversa relazione tra il Tradimento e la Grazia ha continuato ad affacciarsi qua e là anche nelle sue opere successive, da Goodfellas a Casinò, da Kundun a The Departed. Con Silence, Scorsese cerca nuovamente di dare una risposta definitiva. Giuda, qui, si chiama Kichijiro, e dall'inizio alla fine non fa che mostrarsi indegno della propria fede, innanzitutto prestandosi alla delazione e all'abiura per sfuggire alle feroci persecuzioni di cui era vittima chi, come lui, sceglieva di abbracciare il cristianesimo nel Giappone del diciassettesimo secolo. Gesù è  Rodrigues, gesuita che si avventura in un pericoloso viaggio alla ricerca del suo maestro, Padre Ferreira, allo scopo di smentire l'inaccettabile voce (in realtà confermatasi presto veritiera) che egli abbia accettato infine di dismettere l'abito talare. Da quasi subito, incontrerà l'inquisizione nipponica a sbarrargli la strada. Viene dunque sottoposto non esattamente a tortura fisica, ma piuttosto morale. Di che si tratta? Bisogna tenere presente innanzitutto che il film inizia calandoci direttamente nella fantasia intorno a cui ruota l'intera esistenza di Rodrigues: Ferreira che assiste, addolorato ma orgoglioso, al martirio dei contadini, che nemmeno sotto supplizio accettano di rinnegare la propria fede. Ebbene: ciò a cui viene crudelmente sottoposto Rodrigues per gran parte del film, è l'occupare il posto che il suo idolo Ferreira occupava in quelle immagini iniziali – solo tuttavia per imbattersi ogni volta nella propria irrimediabile incapacità a ricoprire quel ruolo. Le efferatezze a cui era costretto ad assistere si rivelavano semplicemente insostenibili ai suoi occhi, e la tentazione di abiurare pur di salvare quelle vittime diventava ogni volta più grande, fino all'inevitabile momento della ritrattazione. Ecco dunque che il calvario messo in scena da Silence consiste nella graduale scoperta che il posto destinato a colui che rappresenta la divinità, ovvero il sacerdote, è semplicemente inoccupabile. Proprio scoprendolo inoccupabile, tuttavia, egli diventa come il suo sacerdote-idolo, Ferreira, il quale dovette arrendersi a seguito della medesima scoperta.

Va subito aggiunto che, in un'era che persino a uno Scorsese appare come post-cinematografica, il paradosso dell'inoccupabilità del posto (del rappresentante) di Dio non si estrinseca più con miracolose coreografie registiche che annodano insieme un punto di vista fortemente soggettivo e uno fortemente disincarnato, come in gran parte della carriera scorsesiana. Siamo piuttosto dalle parti di Shutter Island, e cioè da quelle del delirio paranoico solipsista per cui il mondo intero sembra curvarsi intorno al soggetto per farlo abdicare alla sua soggettività, declinato attraverso le forme del videogame, e cioè ancorando il punto di vista dello spettatore al punto di vista del personaggio con un'insistenza didattica “a prova di imbecille” (aggettivo che verosimilmente ormai qualifica ciò che Scorsese pensa dello spettatore contemporaneo – ma del resto un Lucas con ogni evidenza non la pensa molto diversamente). Lo spettatore contemporaneo sarebbe insomma qualcuno che non prova più a occupare il posto di Dio nel senso cinematografico, ovvero come voyeur non visto, bensì in qualità di piccola divinità videoludica in simbiosi col suo avatar. C'è però una differenza. Shutter Island non rinunciava mai alla completa, scrupolosissima linearizzazione del racconto, dunque non sottraeva mai allo spettatore la prerogativa di avere sempre il controllo sugli eventi. L'illusione di poter occupare il posto di Dio all'interno del racconto sopravviveva insomma anche all'interno del delirio paranoico del protagonista. Silence invece, e per fortuna, sbanda. Comincia subito col contravvenire alla linearità: inizia cioè con la fantasia fondamentale di Rodrigues (Ferreira davanti al martirio dei contadini) prima che Rodrigues stesso entri in scena. Non prima il soggetto e poi la sua fantasia, ma viceversa. Rodrigues appare insomma come un'appendice del posto che proverà, invano, a occupare. E infatti, come vedremo a breve, il film si chiude specularmente proprio con un'ultima inquadratura che dà corpo proprio a quel posto ormai definitivamente vuoto (dopo la morte, cioè, di colui che provava ad occuparlo). Ma c'è di più. Scorsese, fregandosene di ogni equilibrio drammaturgico, sceglie di collocare lo scioglimento drammatico (l'abiura di Rodrigues) in un punto del film inusitatamente anticipato rispetto alla fine. Avviene insomma molto, troppo prima dei titoli di coda. Quest'infrazione, tuttavia, è a ragion veduta: Silence, infatti, inizia proprio quando dovrebbe finire, poiché è virtualmente concentrato tutto nell'ultima parte successiva allo scioglimento – quella cioè in cui viene finalmente districato il nodo che lega insieme Giuda e Gesù, Kichijiro e Rodrigues, intravisto di sfuggita lungo tutto il film. In questo modo, è come se la struttura stessa del film ci lasciasse intendere: non importa tanto che Gesù/Rodrigues abbandoni la fede e si collochi nell'abiezione; quello che davvero importa è se, e come, la sua abiezione sia differente e distinguibile da quella di Giuda/Kichijiro.

La differenza tra i due, che emerge solo nell'ultima parte, è semplicemente che Rodrigues non rinuncia mai ad occupare il posto che non può occupare (quello del sacerdote, cioè quello di Dio). A occupare “regolarmente” il proprio posto è invece Kichijiro, proprio perché fino all'ultimo non abbandona mai la scomoda, ma tutto sommato nitidamente circoscritta collocazione che lo identifica come insalvabilmente abietto. Ma l'abiezione totale non può non presupporre un ordine legale e dunque divino per cui essa sarebbe totale; di conseguenza, è lui, è Giuda/Kichijiro a non essere abbastanza cristiano, proprio perché non abbastanza ateo, per incapacità cioè a presupporre un Dio davvero irrimediabilmente fuori portata. Rodrigues, invece, comincia a sentire la voce di Dio (e noi con lui) solo dopo averlo completamente rinnegato (proprio come il film stesso, in fondo, inizia solo una volta finito). Ed è anche dopo averlo rinnegato che esercita di nascosto le funzioni di sacerdote su richiesta di Kichijiro. Il delirio paranoico di Shutter Island insomma si è prolungato in psicosi schizofrenica. Il Rodrigues che è “solo” Rodrigues è anche un Rodrigues che occupa abusivamente il posto di Dio. La sua trasgressione insomma è maggiore di quella di Kichijiro, che non trasgredisce mai il proprio rimanere perpetuamente fedele alla trasgressione. Dunque sì, Rodrigues/Gesù è davvero Gesù, proprio perché è più Giuda di Giuda. Non viceversa. Che Kichijiro/Giuda sia troppo poco ateo per essere Gesù, viene confermato dal fatto che, dentro un sacchetto appeso al collo, conserva una proibitissima immagine di Gesù. Chi la può vedere? Evidentemente, solo quel Dio la cui esistenza Kichijiro non cessa di presupporre continuando a porsi costantemente come abietto: è a quegli occhi che lui offre quel determinato (e mai ambiguo) spettacolo di sé. Poco dopo, Rodrigues muore. Il suo cadavere viene sigillato dentro una capsula bianca. Uno stupendo movimento di macchina penetra il contenitore, fino a scoprire che le mani del morto racchiudono un'altra immagine sacra. Anche Rodrigues, insomma, sarebbe come Kichijiro/Giuda. Ma con una differenza cruciale. L'occhio di Dio, al quale l'immagine sacra è rivolta, si manifesta in quest'ultimo plan, rigorosamente dopo la dipartita dell'ex gesuita (un po' come Dio che si mette a parlare solo dopo l'abiura, un po' come il film che comincia solo quando finisce), dopo un film intero incollato al suo punto di vista. Se l'occhio di Dio, ovvero quello disincarnato della macchina da presa, guarda l'immagine conservata da Rodrigues, ma non quella conservata da Kichijiro, è perché Rodrigues allo stesso tempo è quell'immagine, dal momento che la capsula che lo racchiude è in flagrante parallelismo con il sacchetto al collo di Kichijiro. Insomma: solo quando i limiti della psicosi schizofrenica vengono raggiunti, Dio finalmente si manifesta, tagliando il nodo escheriano che stringe insieme Giuda e Gesù. Solo il secondo fa fino in fondo nell'occupare una posizione che non può occupare. Solo un'altra volta, nel corso di Silence, viene esibito un movimento di macchina così apertamente sfavillante. Accade quando Rodrigues viene catturato dall'inquisizione, a seguito di un agguato possibile solo grazie alla delazione di Kichijiro. Accade insomma nel momento preciso in cui Giuda si rivela Giuda, aprendo così la strada alla successiva, effettiva distinzione tra lui e Gesù. Un movimento di macchina similmente virtuosistico ricorda quelli del vecchio Scorsese, quello anteriore a Shutter Island, a The Departed... Insomma: lo Scorsese di prima che abiurasse.

Terzo film “religioso” (quarto, se si contasse lo spurio Al di là della Vita) dell’ex-seminarista Martin Scorsese, dopo L’Ultima Tentazione di Cristo, richiamato nell’approccio storico-realistico e sofferto alla fede ma senza le polemiche che accompagnarono la sua uscita (Silence ha avuto l’anteprima al Vaticano), e dopo Kundun, incentrato sul buddismo, religione ufficiale del Giappone che, qui, perseguita i cristiani come da romanzo di Shûsaku Endô, già adattato nel 1971 da Masahiro Shinoda e basato sulla realmente esistita figura di padre Ferreira. Una delle opere in cui l’autore newyorkese concede meno alla spettacolarità, per cui ha faticato a trovare i finanziamenti (la prima bozza di sceneggiatura risale al 1990), con una lunghezza spropositata, non sempre giustificata, e con un approccio che affianca la pittoricità figurativa di un Giappone rinvenuto in Taiwan (scogliere, montagne nella nebbia, giornate plumbee, notti illuminate dalle torce, cave) all’immersione nella spiritualità del protagonista, attraverso la voce narrante (le sue lettere al superiore), le preghiere a un dio di cui comincia ad avvertire il silenzio (sprazzi di dialoghi bergmaniani) ed una riconciliazione finale con “nuova” fede. Almeno tre quarti dell’opera sono dedicati all’incontro dei due giovani con la fede dei cristiani giapponesi: a seguire, dubbi, tormenti, e il dilemma etico se sia più importante la grandezza della Chiesa e della sua missione (Liam Neeson in Mission c’era) o la salvezza delle vite umane. Con il colpo di scena della conversione di Ferreira la parte finale testimonia la grandezza del film ed il peso del suo messaggio, più delle precedenti torture ai contadini, dei crucci interiori e delle fughe dei gesuiti.